Critica
Vedendo Confortorio si è consapevoli di una originale qualità dell'immagine. Non una qualità standardizzata, e dunque definita e imposta, non accettata supinamente, ma cercata, perseguita, modellata attorno alla propria idea. Un'immagine nuova, e perciò fragile e potente, che rivela un'energia e una vitalità che proprio mentre vediamo il film sta ancora fermentando, come una roccia vulcanica la cui forma, prima di fissarsi definitivamente possa ancora sgretolarsi o deformarsi, anche se nulla potrà renderlo possibile, anche se nulla potrà alterare la studiata composizione visiva di Benvenuti. Penso che sia la percezione di siffatta genuinità che contribuisce a rendere Confortorio un film vivo, che traduce in immagini il peso della Storia, che cala sui personaggi e li trasforma gradualmente poco prima della loro morte. Un peso di cui Benvenuti ha saputo farsi carico. In questo senso ha accettato (nella sola maniera possibile, cioè provocandolo) il lavoro demiurgico dell'autore che crea il film in primo luogo in se stesso. Perché fare cinema vuole anche dire stabilire un rapporto diretto tra colui che pensa e realizza il film con ciò di cui parla, con gli argomenti che affronta, annullando (o stravolgendo) le mediazioni dovute all'infiltrarsi di modelli precotti, preordinati, dunque di ciò che è già stato pensato per immagini. L'uso della carrellata è spesso un abuso, secondo Benvenuti. Raramente ha ragion d'essere. Più comunemente è l'espediente di uno sguardo che non sa dove andare. Non uno sguardo acefalo, senza coscienza, ma senza occhio. Lungi dall'invalidare una pratica, laddove questa è interiormente partecipata, la critica di cui Benvenuti si fa portatore è, a questo proposito, rivolta alla facilità, alla noncuranza, con la quale così spesso la mdp viene usata, privandola del rapporto con una precisa spazialità. In sostanza è mancanza di scelta, di punto di vista, mancanza di coraggio, abdicazione espressiva, assenza di poetica. Questa è la critica che, nei film di Benvenuti, diventa pratica filmica. E lo diventa attraverso la scelta precisa di inquadrature, la delimitazione consapevole dei piani e le relazioni interne. (...)
Cineforum 3/1993