Critica
Alla sua terza regia Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, attinge a molto cinema internazionale, da Play Time a Her, citando Ladri di biciclette e Hair (con la canzone Ain't Got No, I Got Life versione Nina Simone), e riportando alla memoria molti altri titoli che hanno a che fare con l'alienazione lavorativa, fra cui Tutta la vita davanti e Sorry We Missed You. Ma il suo merito, assai raro nel panorama della commedia italiana contemporanea, è quello di partire da un'idea e declinarla fino in fondo (la sceneggiatura è sua e di Michele Astori), creando continue svolte narrative che ramificano e allargano la prospettiva invece di fermarsi allo spunto iniziale. Pif, già reporter investigativo e divulgatore televisivo, è documentato su realtà contemporanee visibili a tutti ma poco elaborate cinematograficamente, e usa un linguaggio audiovisivo che appiattisce l'immagine ma senza sciatteria o approssimazione, anzi, con una cura pignola che solo superficialmente può passare per faciloneria. La sua branca di commedia è dolorosa e crudele, e mette in piazza molti dei mostri della contemporaneità: la globalizzazione, il lavoro deumanizzante, la latitanza dei sindacati (e degli sportelli bancari), il cannibalismo tecnologico, l'obsolescenza della forza lavoro (il rider sa che sarà sostituito dai droni che lo sorvolano mentre corre contro il tempo), l'obbligo ad acquistare gli strumenti necessari per fare il proprio mestiere, l'illusione del "lavoro autonomo", il ricatto impari della valutazione dei clienti. Non sono molti i film contemporanei che parlano di tutto questo, men che meno quelli che lo fanno in forma di commedia, dove sia lecito ridere ma impossibile non riflettere e non sentirsi a disagio davanti ad una festa in cui gli ospiti fanno il saluto romano vestiti da nazisti, o davanti a un rider quasi cinquantenne a bordo di un monopattino (rubato) da bambina. Pif si muove fra la battuta e lo strazio, con un quantum di "paraventaggine" che lo conferma figlio dell'(in)cultura che denuncia e la coazione a raccontare l'immaginario collettivo che l'ha formato, che imita e condanna nello stesso respiro. La sua commedia è piena di spunti e di agganci di attualità, racconta l'alienazione e l'isolamento (soprattutto quella distanza dei corpi che la pandemia avrebbe reso esplicita a riprese finite), espone all'umiliazione di un'asta per aggiudicarsi un lavoro sottopagato, rivela i nostri "arrotondamenti dell'arrotondamento", parla di linee aeree low low cost e della corsa collettiva verso l'annullamento. Sarebbe più equo se, quando mette in ridicolo gli hater, ricordasse che ce ne sono tanti anche a sinistra, sarebbe meglio se non ci mettesse un'ora e mezza per far dire a qualcuno "Non è giusto"; così come sarebbe utile che il suo film terminasse come Il laureato, invece che con uno spiegone moralista. Ma in E noi come stronzi rimanemmo a guardare si avverte una disperazione vera e un'impotenza strutturale, e la scelta di veicolarle attraverso una commedia dove comunque si ride, con tre protagonisti (De Luigi, Pastorelli e Pif stesso) da grande pubblico, denota una voglia di dare la sveglia a tutti prima di arrivare al punto in cui non avremo "casa e scarpe, soldi e classe, amici e istruzione, abiti e lavori". E il cinema americano forse ne farà un remake, perché ciò che Pif racconta è universale, purtroppo.
Paola Casella, MyMovies