Critica
Insieme all’altrettanto influente 2001: Odissea nello spazio, Easy Rider fu uno dei grandi ‘trip movies’ dei tardi anni Sessanta, rendendo la musica più espressiva dei dialoghi e scavando un solco generazionale che tagliava il pubblico in due. Come ha notato il critico J. Hoberman, il film “era più che altro alla moda” quando uscì “e quindi è diventato quasi subito datato”. Eppure probabilmente è proprio il suo invecchiare (diversamente dal caso di 2001) che costituisce gran parte del suo valore attuale, in quanto capsula del tempo che con la sua contrapposizione tra hippy e bifolchi evoca parallelismi con la contrapposizione attuale che vede da un lato i progressisti e le minoranze e dall’altro i trumpiani reazionari.
Benché Easy Rider, in conformità con i protocolli autoriali, sia principalmente associato al suo regista, co-protagonista e co-sceneggiatore Dennis Hopper, fu Peter Fonda (produttore e a sua volta co-protagonista e co-sceneggiatore) a far nascere il progetto lanciando l’idea di partenza: un western contemporaneo con le motociclette al posto dei cavalli e due eroi di nome Wyatt (Fonda) e Billy (Hopper), come Wyatt Earp e Billy the Kid, che dopo aver trasportato un carico di cocaina decidono di puntare verso est e di attraversare il paese per andare al Carnevale di New Orleans. E si potrebbe dire che fu Terry Southern, l’autore principale della sceneggiatura, a delineare la sostanza del personaggio di George che lanciò la carriera di Jack Nicholson, una figura a metà strada tra i buoni e i cattivi, fra Wyatt (relativamente cristiano) e Billy (relativamente pagano), un avvocato alcolizzato di provincia che si aggrega ai due prima di finire ammazzato dagli abitanti ostili.
Le scene del Carnevale, girate in 16mm e montate in maniera più discontinua a suggerire i trip lisergici dei personaggi, furono improvvisate, così come l’incontro al bar tra Wyatt, Billy, George e la gente del posto, che fu invitata a esprimersi liberamente. Questo, oltre alla vera assunzione di stupefacenti da parte del cast, trasmette un senso di autenticità documentaristica che permette di sorvolare sulle pretese metafisiche e sui privilegi degli eroi cowboy.
Jonathan Rosenbaum