Critica
L’aspetto ludico e tragico da una parte e la riflessione sulla natura umana dall’altra saranno centrali anche in Full Metal Jacket. Nonostante il tema attuale e prettamente bellico (Kubrick si ispira al romanzo di Gustav Hasford, un ex marine che narra la sua esperienza in Vietnam), il film si può accostare ad altre sue pellicole, da 2001: Odissea nello spazio a Shining. Questo perché per il regista ogni genere diventa un non-genere: le convenzioni sono fatte per essere infrante, modificate e sovvertite. In Full Metal Jacket non c’è posto per azioni spettacolari. Bastano qualche palma, un elicottero e un edificio in fiamme per ricreare la grande illusione. La rappresentazione del Vietnam, con i suoi spazi urbani geometrici e solitari, altera la percezione della guerra che non trova più riscontro nell’immaginario classico (come accadeva già nei due film precedenti), ma assume i toni di un conflitto interiore teso a far emergere l’ambiguità dell’uomo. L’elmetto di Joker con la scritta “born to kill” e la spilla con il simbolo della pace appuntata sulla sua divisa sono l’emblema di quelle contraddizioni che sfociano in atti di lucida follia (l’uccisione del sergente Hartman e il suicidio di Palla di Lardo).
Il dramma viene però stemperato dalla colonna sonora che contiene brani pop e rock stranianti rispetto alle immagini che scorrono sullo schermo: lo psichedelico Surfin’ Bird dei Trashman, che accompagna la sfilata dei feriti in barella scortati su un elicottero, ricorda il leggiadro valzer di Strauss sul quale volteggiano le astronavi di 2001. La musica non serve quindi da contrappunto lirico agli eventi ma se ne discosta creando disarmonie di estrema pregnanza. Particolarmente efficace è la sequenza conclusiva con i soldati ripresi in controluce che avanzano nella notte cantando la Marcia di Topolino: l’eroismo alla John Wayne è ormai tramontato, sembrano suggerire, ridotto a una maschera di assoluta comicità. Restano solo la paura della morte, esorcizzata attraverso atti di violenza che trasformano gli uomini in macchine di distruzione, e il desiderio di tornare alle origini, a una condizione di ancestrale innocenza propria dei bambini che scrutano il mondo da una prospettiva privilegiata.
Kubrick, infatti, non vuole raccontare gli effetti della guerra (Il cacciatore di Michael Cimino) né tantomeno il mirabolante revanscismo dei reduci (Rambo di Ted Kotcheff). Full Metal Jacket è la storia della progressiva perdita d’identità di un gruppo di giovani marines che inizia superficialmente, a livello fisico (i capelli rasati a zero nella prima scena), fino a giungere nelle zone più profonde dell’inconscio (in modo simile ad Apocalypse Now di Francis Ford Coppola). In tal senso i due blocchi narrativi, l’addestramento e il fronte, sono in realtà complementari. La parabola di Palla di Lardo, condita di un umorismo nero quasi sellersiano (esplosiva la performance di Ronald Lee Ermey con il suo linguaggio vernacolare), fa da preludio a quella di Joker che alla fine, spogliato della sua cinica ironia, indosserà le vesti di un assassino come tanti nel grande libro della Storia: “Certo vivo in un mondo di merda, questo sì, ma son vivo, e non ho più paura”.
Marco Bolsi, sentieriselvaggi.it