Critica
Gianluca Jodice esordisce alla regia del lungometraggio con Il cattivo poeta, del quale firma anche soggetto e sceneggiatura, utilizzando per i dialoghi di D'Annunzio solo le sue parole scritte o pronunciate in pubblico, e costruendo una storia volutamente inattuale che però ha evidenti ricadute anche sul presente.
La forma è convenzionale e antica, virata nei colori seppia, blu e grigio pietra, a volte squarciati dai verdi intensi dell'arredamento del Vittoriale all'interno del quale è stata girata parte del film. Gli ambienti sono importanti, soprattutto quelle architetture fasciste che giganteggiano su uomini ridotti a figurine. Anche il Duce, secondo una scelta registica molto azzeccata, è poco più che una sagoma del potere cui D'Annunzio, nella scena più bella del film, sussurra inascoltato il suo "memento mori".
L'impianto teatrale (molti attori del film provengono dal teatro, altra scelta di spessore) è evidente, ma in qualche modo necessario per raccontare una parabola archetipica sul potere e la libertà di pensiero. D'Annunzio, pur senza mai rinnegare la sua affiliazione fascista, è un ingestibile che non può fare a meno di parlare per sé, ed è questa la sua condanna. La grande popolarità ottenuta con "l'impresa di Fiume" ha smesso di portare acqua al mulino del Partito, e ora è un uomo solo con i suoi fantasmi e i suoi decori decadenti.
Comini, ben interpretato da Francesco Patanè, è poco più che una cartina di tornasole che consente al Poeta Vate di giganteggiare al suo fianco (e a fianco dei tanti "topi" che infestano la sua casa), ma Sergio Castellitto rifugge la tentazione di gigioneggiare e sceglie una strada sobria ed essenziale, una cifra ironica e dolente perfetta per questo D'Annunzio crepuscolare e (quasi) rassegnato. La sua è un'interpretazione monumentale concentrata in poche scene, tanto che si vorrebbe che il film lasciasse più spazio alla sua storia e meno a quella, obiettivamente meno interessante, del giovane protagonista.
Paola Casella, mymovies.it