Critica
Tutti, comprese le voci presenti in Il padiglione sull’acqua di Silvia Siberini e Stefano Croci (in concorso al 48º Laceno d’Oro), descrivono Carlo Scarpa come un vero e proprio visionario. Il suo sguardo andava ben oltre i limiti della disciplina architettonica. Ancora oggi, colui che percorre una sua opera viene trascinato in una visione fatta di suoni e colori sempre interconnessi con il contesto, con ciò che la attraversa e con qualcosa di più profondo. Una galleria viene pensata per dialogare con i quadri che vi verranno esposti. Una tomba diventa un percorso dove meditare sulla vita e sulla morte. Luoghi capaci di intensificare il mistero e uno in particolare: che cos’è la bellezza?
Con questa domanda posta dal filosofo giapponese Ryosuke Ōhashi comincia Il padiglione sull’acqua. Un quesito insolubile, di fronte al quale la ragione, come di fronte al sublime kantiano, non può che capitolare. Non sembra, però, solo per i limiti di quest’ultima. È come se l’essenza della bellezza non potesse sopravvivere in uno spazio astratto, al di fuori della materialità delle cose e di un continuo ciclo di rinnovamento (una ritualità concretizzata dalla ventennale ricostruzione del tempio di Ise, luogo molto caro all’architetto veneziano). Ecco, allora, che Carlo Scarpa mette la sua razionalità architettonica, la sua progettualità, al servizio di questo cortocircuito, di questa esperienza estatica così vicina alla sfera del sacro.Il percorso per tale elevazione cominciava per Scarpa, come racconta suo figlio Tobia, da una matita temperata a mano. Per Il padiglione sull’acqua, invece, comincia con una sinuosa carrellata tra i canali di Venezia, in magica risonanza con la (forse) primissima carrellata della storia del cinema realizzata da Alexandre Promio. Un’immagine nata per stupire un pubblico allora estremamente sensibile al potere dell’esotismo, per spillar loro qualche nickelino, ma che oggi ha trasceso questa funzione e continua ad ammaliare lo sguardo. È, forse, nel fluire del tempo che risiede questo potere?
Il padiglione sull’acqua scorge un intreccio, una trama di tempi nell’opera di Carlo Scarpa (gli influssi dell’arte bizantina, dell’arte sacra giapponese, di Paul Klee, di Frank Lloyd Wright…) che si cristallizzano nel presente, nel qui e ora che comprende tutto. Così, il documentario di Siberini e Croci non cerca la linearità, ma esegue una serie di passaggi tutti volti a evocare lo spirito del grande architetto. Un’energia che permea tutto, tanto l’oro quanto il legno, tanto il cemento armato quanto nella pioggia che lo scava goccia dopo goccia, e persino nella nostra carne. Anche e soprattutto in quella di Carlo Scarpa, architetto e profeta della tecnosfera.
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