Il prigioniero coreano - Cineclub Arsenale APS

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IL PRIGIONIERO COREANO

di Kim Ki-Duk

Durata: 114'
Luogo, Anno: Corea del Sud 2018
Cast: Ryoo Seung-Bum, Lee Won-Geun, Choi Gwi-Hwa, Jo Jae-Ryong, Won-geun Lee


Sinossi

Nam Chul-woo è un povero pescatore nordcoreano che nella sua barca ha l'unica proprietà e l'unico mezzo per dare da mangiare a sua moglie e alla loro bambina. Un giorno gli si blocca il motore mentre sta occupandosi delle reti in prossimità del confine tra le due Coree e la corrente del fiume lo trascina verso la Corea del Sud. Qui viene preso sotto controllo delle forze di sicurezza e trattato come una spia. C'è però chi non rinuncia all'idea di poterlo convertire al capitalismo lasciandogli l'opportunità di girare, controllato a distanza, per le strade di Seoul.


Critica

“Indipendentemente dalla volontà, gli esseri umani sono bloccati nell’ideologia politica dei luoghi in cui sono nati”. Queste sono le parole con cui Kim Ki-duk “spiega” il suo nuovo film, Il prigioniero coreano (il titolo internazionale, The Net, è invece latraduzione letterale dell’originale coreano Geumul), presentato alla settantatreesima edizione della Mostra di Venezia nella neonata sezione “Cinema nel Giardino”, inaugurata proprio dal film di Kim – che ha avuto anche l’onore di essere il primo titolo proiettato nella Sala Giardino, un cubo rosso eretto sopra la vergognosa buca che aveva segnato l’immaginario visivo del festival negli ultimi anni. Indipendentemente dalla volontà. Non c’è nulla di volontario nella disavventura che vede protagonista Nam Chul-woo, un pescatore della Corea del Nord che si trova costretto a espatriare in direzione del sud per via di un’avaria a bordo della sua piccola imbarcazione. Non è volontario lo sconfinamento, così come non è volontario il messaggio in codice che a Seul trasmetterà a una compagna/spia, pensando di aver solo riportato alla ragazza le ultime parole del padre moribondo. Una poesia, come la definirà lo stesso Nam agli agenti che lo stanno trattenendo nel Sud, con la speranza di poterlo additare come spia, per poi costringerlo a redimersi e a tradire il Nord, per poterlo quindi utilizzare come arma di propaganda. La stessa propaganda, ça va sans dire, che ha già messo in atto il Nord, accusando di barbarie il governo di Seul e proclamando Nam come eroe del popolo.

In questo bailamme tra il tragico e il ridicolo il pescatore vorrebbe solo essere rilasciato, per potersene tornare con la sua barca a casa, dove lo aspettano la moglie e la figlioletta. Sopra il letto di Nam giganteggia un’immagine raffigurante i leader della Repubblica Popolare Democratica di Corea, Kim Il-sung e Kim Jong-il, a cui il pescatore ha giurato eterna fedeltà. Una fedeltà non priva di naturale sfiducia, la stessa che sembra muovere la regia di Kim Ki-duk, impegnato in una narrazione strutturata in due parti, tra loro speculari e complementari. A una prima parte (la più lunga e consistente, anche da un punto di vista di senso) che vede Nam catturato come “potenziale spia” nel Sud, interrogato e trattenuto con la violenza – l’unico a mostrarsi compassionevole nei confronti del prigioniero è Oh Jin-woo, la guardia incaricata di non perderlo mai di vista, neanche quando è da solo nella stanza che gli è stata assegnata – fa seguito una seconda parte, dopo il ritorno dell’uomo nella madrepatria, dove l’accoglienza in pompa magna dura meno di un battito di ciglia, sostituita da una nuova prigionia, altrettanto barbarica e insensata.

Il gioco di Kim si fa fin troppo scoperto, con le due Coree messe a confronto evidenziando differenze talmente grandi da provocare le medesime storture. Due sistemi corrotti, in cui non si nutre la minima fiducia verso un popolo sfruttato a proprio uso e consumo, senza più alcuna morale a sorreggere le azioni. Due nazioni che non si reggono più su un’idea, ma solo su un’ideologia difesa con tanta protervia da essere ottusa, idiota, incapace di leggere la verità perché già in partenza detentrice di quella stessa verità. In questa guerra condotta a colpi di propaganda Nam non può che finire schiacciato dall’ingranaggio, pedina sconfitta fin da subito.

Quando un pesce finisce nella rete, dopotutto, non ha alcuna speranza di salvarsi, ed è lo stesso Nam ad ammetterlo, conscio del cul-de-sac in cui è andato a infilarsi. Il prigioniero coreano, che Kim mette in scena come se stesse maneggiando un materiale kafkiano, è un film d’idea prima ancora che di contenuto, in cui la forma non può che cedere di fronte alla sostanza. Tutto si fa forse fin troppo semplice, con le sfaccettature della questione ridotte al minimo indispensabile, ma è innegabile la forza della sincerità del regista, così come convincono le interpretazioni di Lee Wong-gun e soprattutto del protagonista, uno splendido Ryoo Seung-bum (gli appassionati di cinema coreano lo ricorderanno in The Berlin File, Arahan e Crying Fist del fratello maggiore Ryoo Seung-wan, ma lo si può ammirare tra gli altri anche in Sympathy for Mr. Vengeance di Park Chan-wook, Doomsday Book di Kim Jee-woon e Yim Pil-sung, e New World di Park Hoon-jun), che dà corpo e voce a Nam, uomo che non si è lasciato obnubilare dall’ideologia nordcoreana ma è riuscito a conservare un’idea. Un’idea socialista, egalitaria, fraterna. Per non lasciarsi corrompere – ma anche per non avere problemi al ritorno in patria – non vuole vedere Seul, la città tentatrice, la città capitalista, la città del benessere apparente. Eppure sarà proprio un giocattolo, un dono per la figlioletta, a contribuire a metterlo nei guai.

Al di là delle “ovvietà” pacifiste (perché un popolo deve essere diviso in due, lacerato fino allo stremo?), Il prigioniero coreano coglie nel segno in maniera profonda quando tocca la tematica meno abusata: cosa significa davvero essere “liberi”? Si può chiamare libertà quella di una donna costretta a prostituirsi per non far morire di fame la propria famiglia? Allo stesso modo, come può essere libero un uomo che non ha il permesso neanche di desiderare il possesso? In questo interrogativo si cela il valore reale di The Net, dramma che da un punto di vista estetico si inserisce altrimenti nella fase recente del cinema di Kim, quella che ha fatto seguito al film spartiacque Arirang. Lo sguardo di Kim è tutto in quella frase, in quel “indipendentemente dalla volontà”. Non basta il coraggio o l’idea, in un mondo così martoriato e mostruoso in cui è sufficiente un motore in avaria per distruggere una vita.

Raffaele Meale, Quinlan.it