Critica
Con quella sua aria dimessa, la divisa di cameriera di un ristorante che si chiama "Il re della vongola", i rimpianti sul passato e i sogni sul futuro, la Kate Winslet di La ruota delle meraviglie è chiaramente l'altra faccia della Cate Blanchett di Blue Jasmine. La sua versione proletaria.
Certo, la Ginny di questo nuovo film di Woody Allen, al contrario di Jeannette/Jasmine, non è mai stata protagonista di una vera e propria caduta socio-economica: proletaria lo è sempre stata, e sempre lo sarà. Ma anche lei è vittima tanto delle sue colpe (dei suoi difetti drammatici, per dirla con Allen) quanto del destino. Anche lei ha perso molto, e anche lei lotta disperatamente, e invano, per riconquistare qualcosa, foss'anche un drink: lì il vodka martini con scorza di limone, qui uno scotch liscio.
Se già nel film del 2011 era evidente che Allen stesse guardando direttamente a Tennesse Williams per la storia e i personaggi, La ruota delle meraviglie lo ribadisce in maniera ancora più decisa, con i suoi richiami costanti e chiarissimi al teatro: dal personaggio di Justin Timberlake, ingenuo aspirante drammaturgo (e seduttore seriale: d'altronde fa il bagnino, e alla fine le spiagge di Coney valgono quelle di Rimini), a scelte scenografiche figlie della chiara intenzione di rendere il set un palcoscenico, come per l'appartamento attorno al quale ruotano gran parte delle vicende e dei dialoghi.
E un monologo finale, straordinario, di una Winslet in abiti - per l'appunto - teatrali, ce la presenta senza possibilità di dubbio come la Blanche DuBois di questa storia.
Una storia, quella di La ruota delle meraviglie, che non fa altro che confermare le ossessioni attorno alle quali gira tutta la produzione recente di Allen: la giostra (guarda un po') della vita; il libero arbitrio contro il destino; la colpa; l'impossibilità di una vera redenzione; il confronto con i propri fallimenti e col peso delle scelte compiute.
Una storia che gira (no pun intended) attorno agli incroci tra quattro protagonisti tutti alle prese con le loro illusioni e i loro fallimenti: la Ginny della Winslet, suo marito Jim Belushi, la figliola prodiga (di lui) Juno Temple e il bagnino seduttore di Timberlake. Quattro vite che si affannano, s'intrecciano, s'illudono e sbattono il muso, mentre attorno a loro un bambino - il figlio di Ginny, avuto dal suo grande amore perduto per un tradimento) che non fa altro che cercare una via di fuga nel cinema e dare fuoco a tutto quello che incontra.
Perché alla fine, per non far la fine di Ginny, quelle sono le uniche cose che rimangono: la fuga, o la distruzione.
Il panorama è desolante, e Allen ci prova appena a mascherarlo con i suoni e i colori di una Coney Island che nel 1950 è già in decadenza, mentre Vittorio Storaro alterna gloriose luci dorate e innaturali e grigi cupi e impietosi per raccontare la dolorosa discrepanza tra il sogno e la realtà di questi personaggi, quella distanza incolmabile con cui, ognuno a suo modo, saranno tutti costretti a fare i conti.
Al contrario di quanto accadeva in Irrational Man, qui la tragedia non è ammantata di grottesco, e non c'è alcuna parziale consolazione al crollo inesorabile di tutte le aspirazioni dei protagonisti, come avveniva in Café Society, attraverso l'umorismo o il successo professionale. Forse perché a mancare è proprio l'amore, e la sua magia, quella che ammantava e ammaliava Colin Firth e Emma Stone in Magic in the Moonlight. La mancanza di speranza, allora, è proprio quella di Blue Jasmine.
Con meno rabbia, meno acidità, ma con molto più pathos: perché di teatro si tratta, a Tennesse Williams si guarda. E perché, forse, Allen - sempre più limpido, essenziale, cristallino - è oramai del tutto convinto che con la tragedia e il fallimento non si possa fare altro che conviverci, cercando di navigare a vista, di aggrapparci a quel che abbiamo, per poco che sia. E se allunghiamo la mano nell'illusione di afferrare qualcos'altro, beh: non c'è bagnino che ci possa salvare.
Fedrico Gironi, comingsoon.it