Critica
L’Atalante di Jean Vigo è uno dei film più leggendari della storia del cinema, ultimo parto creativo di un regista geniale destinato a morire neanche trentenne per l’incedere della tubercolosi. L’Atalante, che in Italia è stato reso celebre dalla fortunata sigla di Fuori Orario – Cose (mai) viste (dove le immagini del film erano accompagnate, fino a qualche mese fa, da “Because the Night” cantata da Patti Smith), è un’opera che fonde con miracolosa grazia le derive delle avanguardie con un’esigenza narrativa che guarda al reale e si pone sempre dalla parte degli ultimi, degli emarginati. Come la chiatta che procede lungo il fiume, battello (non) ebbro di rimbaudiana memoria. Il cinema nella sua forma più alta, presentato in Cannes Classics 2017.
L’Atalante è una chiatta che risale il fiume. Un onirico tuffo nell’acqua. Un vecchio marinaio che si circonda di gatti e fa fumare la sua sigaretta al tatuaggio che ha sull’ombelico. Un matrimonio paesano. Quell’onirico tuffo nell’acqua che si fa memoria stessa del cinema, della sua potenza libertaria, della sua (in)coscienza, della sua sotterranea rivoluzione eterna, perpetua, incessante. Sono trascorsi oltre ottanta anni dalla prima proiezione pubblica de L’Atalante – in una versione a dir poco martoriata da squallidi produttori, che la rilasciarono con il titolo La chalande qui passe mentre Jean Vigo era già sottoterra, ucciso dalla tubercolosi. Se il genio per accezione comune brucia in fretta, nessuno è bruciato più in fretta di Vigo, ucciso dalla malattia a ventinove anni con appena un pugno di titoli a irrobustire la sua filmografia: l’anno precedente a L’Atalante era uscito nelle sale francesi Zero in condotta, gioioso e sarcastico elogio alla ribellione, alla messa alla berlina del potere istituzionale. Guardato con sospetto per le sue simpatie anarchiche – e il babbo Eugène Bonaventure de Vigo anarchico lo era stato davvero, direttore del giornale Le Bonnet rouge e poi morto, forse suicida forse no, in carcere quando Jean aveva appena nove anni – il giovane regista transalpino venne censurato, e reso quasi invisibile. L’Atalante fu anche il gesto di coraggio di un produttore, Jacques-Louis Nounez, che non voleva rinunciare all’idea di vedere sul grande schermo lo strapotere visionario e insubordinato di Vigo. Pensava con ogni probabilità che pubblico e critica si sarebbero ravveduti, riconoscendo il genio che albergava in ogni inquadratura del film, in ogni soluzione, in ogni dialogo, in ogni taglio di montaggio. Dopotutto la Francia, pur con i suoi subbugli, è già quella che di lì a un paio di anni, nel 1936, darà ampio consenso alla proposta marxista, socialista e antifascista del Fronte Popolare, e il cinema sta già mostrando i prodromi di quella “nuova onda” che esploderà come un ordigno solo nel dopoguerra: figli dell’osmosi tra surrealismo e impressionismo, si agitano liberi gli incubi/sogni di René Clair (Sotto i tetti di Parigi), Jacques Feyder (Pensione Mimosa), Jean Renoir (nell’epoca sonora La cagna ma soprattutto Boudu salvato dalle acque), Julien Duvivier (Pel di carota), Marcel Pagnol (Angèle), mentre un paio di anni dopo la morte di Vigo esordirà anche Marcel Carné, punta di diamante di quel realismo poetico che è il tratto distintivo della cinematografia francese del periodo. Come i film di questi registi anche L’Atalante, secondo il pensiero di Nounez, sarebbe stato esaltato dal pubblico. Si sbagliava. Si sbagliava in modo terribile.
Chissà cosa avrebbe fatto Vigo se fosse sopravvissuto a quei mesi di riprese fluviali, d’inverno, mentre L’Atalante prendeva sempre più corpo e la tubercolosi si rafforzava. Non è ovviamente dato saperlo, ma non si può evitare di pensare che sarebbe stato ancor più messo in un angolo da un mondo fieramente progressista ma incapace di comprendere – o forse accettare – l’atto rivoluzionario. Se c’è un argine nell’immaginario europeo all’avanzare dei fascismi che infettavano e infetteranno il Vecchio Continente, dall’Italia alla Germania fino alla penisola iberica, lo si trova tutto nella semplice originalità di Vigo, nel suo sguardo mai piano, sempre stratificato eppure così lineare, diretto, obiettivo; forse solo Fritz Lang, con un approccio completamente diverso, può ambire al medesimo risultato nel cinema dell’epoca.
Aveva quaranta anni il cinema quando Vigo si introdusse nel territorio del “meraviglioso” (rubando il termine ad Antonin Artaud, altro marginale destinato a una fine lontana dalla ribalta che avrebbe meritato) svelandone sterilità e cattive abitudini già in essere. Sistemi. Non è mai sistemico, Vigo, così come non lo era né in A proposito di Nizza né nel sublime perdesi subacqueo di Taris, où la natation, e ovviamente nel già citato Zero in condotta, attraverso cui il giovane regista sobilla lo spettatore. Partecipa, spettatore! Dì “merde!” al tuo professore, spettatore! Sali sui tetti e dopo aver sabotato la festa borghese innalzati verso il sol dell’avvenire, spettatore! Se L’Atalante sembra raddolcirsi è solo perché lo sguardo del pubblico si lascia sedurre da una splendida storia d’amore: è un accorato dramma sentimentale, a voler semplificare tutto, L’Atalante, racconto di un uomo e una donna che imparano a comprendersi, e forse ad amarsi. A vivere.
Ma la vita per Jean e Juliette è possibile solo sulla chiatta, la loro storia d’amore ha senso solo se non mettono piede a terra; quando questo avviene, Juliette rimane colpita dalle mille luci parigine, dal capitalismo strisciante, sotterraneo, borghese. Quel mondo al quale comunque non può accedere, trovandosi costretta a ricorrere alla mensa dei poveri per non patire la fame. Solo la chiatta, l’Atalante, può evitare ai due innamorati di soffrire i patemi della contemporaneità; come il “battello ebbro” di rimbaudiana memoria, l’Atalante se sogna un’acqua, è «un’acqua d’Europa, è la pozzanghera nera e gelida, quando, nell’ora del crepuscolo, un bimbo malinconico abbandona, in ginocchio, un battello leggero come farfalla a maggio»; gli oceani siderali gli sono preclusi, non c’è sogno d’avventura ma quotidianità. L’umanità che deborda dai fianchi del film di Vigo è quella rinchiusa nei ghetti, sottoproletari per nascita ma anche per vocazione, testardamente in lotta contro i dis-valori di una borghesia ingrassata, ottusa, incapace di sognare.
E invece il sogno è l’arma finale tra le mani di Jean, Juliette, père Jules e il mozzo interpretato da Louis Lefebvre (che era anche uno dei collegiali di Zero in condotta); nel delirio Jean ritrova in acqua la sua amata, in una sovrimpressione che è passata alla storia e che in Italia è stata riverberata nelle menti cinefile dalla sigla di “Fuori Orario – Cose (mai) viste”, il programma ideato da Enrico Ghezzi per la RaiTre di Guglielmi. Nel delirante ascolto di un vinile con canti marinareschi père Jules ritrova la fragile Juliette e se la carica sulle spalle per riportarla alla chiatta. Per riportarla a casa. Nel ventre caldo dell’Atalante, dove l’impossibilità di una storia d’amore sa divenire reale, abbandonando la magia per vivere il quotidiano. O il contrario, se si preferisce. Dominato da uno stile che non ha eguali, e che a ottantatré anni di distanza rivendica il proprio ruolo di primaria importanza nella storia del cinema, L’Atalante è un gesto estetico e umano perfetto, e come ogni cosa perfetta, sa essere ribelle anche a sé, smentirsi, muoversi tra le acque limacciose con maestosa imponenza, e allo stesso tempo danzare fragile e liberissimo, evocativo e struggente. Come scriveva Artaud in Per farla finita col giudizio di Dio: «Là dove si sente la merda | si sente l’essere. | L’uomo avrebbe potuto benissimo non andare di corpo, | non aprire la tasca anale, | ma ha scelto di andare di corpo | come avrebbe scelto di vivere | invece di acconsentire a vivere morto».
Quinlan.it