Critica
In Concordo a Venezia 79, si potrebbe parlare tanto di Ozu che di Banana Yoshimoto, di minimalismo senza obbligo di intimismo, di elaborazione del lutto che si concede il privilegio della revocabilità, dell’irresolutezza, dunque, della vita per come è. Il tono per promessa – possiamo dirlo: di felicità – e le cose umane per premessa e esito insieme, Love Life è di padri e non padri, figli e madri, di coppie che si lasciano e lasciti che si accoppiano, e ha le geometrie variabili, l’architettura aerea dei mobile, e senza scomodare Calder basta il cd antipiccioni e portafortuna sul balcone di casa. La dispensatrice finale è la tenera e assertiva Taeko (Fumino Kimura), che vive col marito e il figlioletto Keita, enfant prodige di Othello, avuto da una precedente relazione. Non tutto è tranquillo, col suocero ci sono screzi, col marito forse non un amore pieno, ma si vive, finché qualcuno non muore, e rispunta il padre biologico di Keita, di cui Taeko aveva perso le tracce. Non accade molto, eppure molto succede: cangiano i sentimenti, si muovono le relazioni, si spostano gli equilibri, con la certezza di una sola fine, la morte, e l’incertezza di mille inizi, prosiegui e ritorni. Un film tattile, per come maneggia i rapporti, e sensibile, per come suggerisce i sentimenti, ondivago per verosimiglianza, gentile di necessità: “vestiti, usciamo”, potrebbe finire, ma è solo – o il solo – possibile epilogo, dunque apertura incondizionata. Ricorda come leggerezza e superficialità siano opposti, e come non servano uomini e donne illustri, grandi gesta, sentimenti totalizzanti e smodate passioni per dire chi siamo. Il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, e che dire della vasca? Nel cinema gramo di oggi, Love Life non è da premio: è il premio.
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