Critica
Facendo già sfoggio di uno stile che poi affinerà nelle opere successive, Sorrentino affonda oltre l’apparenza delle persone e ne traccia le multiformi personalità, stavolta in una fase della vita comune a ogni essere umano: il declino. Ne dipinge le ombre, che già si insinuano nel momento del successo, della massima soddisfazione personale, che spietatamente precede la decadenza. Atmosfere cupe, sordide, un senso di solitudine quasi costante, si alternano al ritmo leggero e volubile degli anni 80. Una scelta di opposti certo non casuale. Come casuale non è l’oggetto d’indagine di Sorrentino, ovvero il lato oscuro di due colonne portanti del nostro paese: il calcio e la musica leggera.
Da un lato rovista dietro le quinte del pallone (come ancora poteva chiamarsi il calcio), laddove non è permesso entrare: gli spogliatoi (questo vale per gli anni 80 e anche per il 2001 – anno di uscita del film – ma non per oggi, che le telecamere hanno accesso ovunque), lo studio del presidente, il futuro che (neppure gli stipendi erano quelli di oggi) preoccupava la maggior parte dei calciatori, persino di serie A. Il personaggio di Antonio Pisapia, flemmatico, sensibile, “fondamentalmente triste” e il suo tragico gesto, sono un riferimento esplicito alla storia di Agostino Di Bartolomei, capitano della Roma degli anni 80.
Dall’altro lato rovista nel vissuto di Tony Pisapia (se Cheyenne in “This must be the place” è la fusione di Robert Smith e Ozzy Osbourne, Tony è un incrocio fra Riccardo Cocciante – la vocalità – Peppe Gagliardo – il temperamento – e Franco Califano – la spudoratezza e la cocaina –), personaggio estroso e ingestibile, emblema di una generazione di cantanti che – a differenza di molti loro colleghi dell’ultimo decennio – non erano confezionati dalle case discografiche secondo la domanda del mercato.
Una luce piuttosto fredda e una fotografia moderna, senza eccessi, bilancia – evitando forse che il film scivoli nel grottesco – le scenografie kitsch tipiche degli ottanta (basti pensare alla casa di Tony) e gli attori stessi, che si muovono perfettamente a loro agio nei personaggi.
Superlativa interpretazione di Toni Servillo (attore protagonista anche ne “Le conseguenze dell’amore” del 2004 e ne “Il Divo” del 2008), memorabile il lungo monologo-riepilogo della sua vita, dinanzi all’attonito conduttore televisivo. Meno poliedrica ma ugualmente all’altezza, l’interpretazione di Renzi (sua l’idea di caratterizzare il personaggio con un lieve accento umbro) che oltre alla fisicità, assume il portamento e le precise movenze dei calciatori dell’epoca, robusti e impettiti ma non certo muscolosi come quelli attuali (come si vede nel suo ingresso sul terreno del San Paolo, scena peraltro girata “velocemente”, prima di una partita casalinga del Napoli). Sorprendente e di notevole impatto, nella scena che segue i titoli di apertura, lo sproloquio con cui il “Molosso” (Nello Mascia) si scaglia contro i suoi giocatori (tributo al “Petisso” Bruno Pesaola, celebre e focoso allenatore del Napoli, liberamente ispirato al sergente Hartman di “Full Metal Jacket”).
“L’uomo in più” non è un film sul calcio, né sulla musica leggera. La trama, ben strutturata anche da un punto di vista narrativo, è “solo” funzionale ad addentrarsi nell’animo umano, a scoprire cos’altro c’è dietro le apparenze. L’omonimia, il parallelismo, la coincidenza, sono “figure retoriche” che inducono a considerare la storia in un disegno più ampio. Le vicende di ognuno sono la rappresentazione terrena di una commedia che è scritta e per la quale siamo solo in minima parte decisivi. Ma in quella parte, seppur minima, ci si gioca tutto. Ne “L’uomo in più”, come nei suoi film successivi, Sorrentino descrive l’animo umano come votato all’eccesso. L’essere umano, libero di esprimersi, è incline a eccedere nel perseguimento delle proprie pulsioni, passioni, dei propri sentimenti. Ma spesso anche questa libertà non è altro che un’etichetta sociale, che nulla ha a che vedere con la propria essenza. Perduto tutto ciò che possedevano, i due protagonisti hanno la grande occasione per riscoprirsi, liberi da ogni etichetta. Ma l’illusione di essere “qualcuno” vince sull’opportunità di essere finalmente se stessi.
Lorenzo Taddei, ondacinema.it