Critica
Il Francesco Totti che vediamo mentre inizia il suo racconto ha l'aspetto di quello del 2020, ma lo immaginiamo proiettato in un giorno critico di primavera del 2017. È solo una delle forzature narrative di un documentario spurio più che ibrido, in cui Alex Infascelli non intende raccontare per celebrare il campione, ma intende rivivere una vita esemplare, con lo spirito dell'uomo Francesco Totti. Semplice, all'antica, maledettamente umano nei trionfi come negli sbagli commessi.
A Totti non si può non voler bene, anche se non si è romanisti. Per le prodezze balistiche, che ci ricordano di cosa fosse capace sui campi da gioco, e per la spontaneità disarmante che lo accompagna, sia che si tratti del Totti "romanticone", come si autodefinisce, o di quello fumantino, che sputa o scalcia gli avversari. Su questa narrazione di borgata, del ragazzo di Torvaianica rimasto per sempre quello che centra le paperelle col pallone, Infascelli erige un'impalcatura supereroica che a volte stride e a volte no.
Guardare alla Roma antica è esercizio rischioso, ma il fatalismo assoluto che ammanta il racconto a ritroso del campione comunica proprio con quella filosofia pagana, più che con i simboli cristiani che talora Infascelli pericolosamente accosta a momenti chiave della storia. Il Destino pare quasi un amico imparziale e onnipotente, per Totti, una mano inesorabile che accompagna i momenti critici della sua vita. Il Tempo, invece, un nemico implacabile, che per comodità alla fine della storia veste i panni di Luciano Spalletti, ultimo allenatore del Pupone.