Critica
“L’azione si svolge a Parigi ai tempi beati in cui una sirena era una bella bruna e non un segnale d’allarme…”: nella didascalia iniziale di Ninotchka è riassunta la ricetta che Ernest Lubitsch ha sempre contrapposto ai tempi bui del XX secolo che la sua generazione ha vissuto in prima persona.
Alle violenze del mondo si risponde con l’ironia, alla pesantezza delle ideologie si risponde con la leggerezza più assoluta, alla guerra si risponde con il flirt e con l’amore. A Parigi i compagni Buljanoff, Iranoff e Kopalski, in missione per vendere alcuni gioielli confiscati dallo stato sovietico ad una nobildonna russa, si fanno sedurre dai piaceri materiali e dal lusso francese, tanto da richiedere l’intervento di un inviato sovietico che li sorvegli: ecco che arriva la compagna Nina “Ninotchka” Ivanovna Yakushova, integerrima combattente rivoluzionaria, sicura delle sue idee e sprezzante verso i capircci europei. Ma è solo questione di tempo: per lei galeotte non saranno suite lussuose e cameriere disponibili, bensì l’amore del conte Leon d’Algout (Melvyn Douglas), leggero e inebriante come le bollicine dello champagne. A complicare le cose, e a rendere perfetto il ritmo del film, la sottotrama dei gioielli confiscati, al centro della disputa legale tra i sovietici e la granduchessa Swana, già amante e sodale dello stesso conte Leon. Ovvio che Lubitsch non prenda sul serio lo scontro di ideologie, ovvio che si prenda gioco di una parte e dall’altra: i nobili sono vuoti e meschini, i loro maggiordomi più reazionari di loro, i tre sovietici sono stolti di buon cuore che antepongono la propria pancia piena al bene della Rivoluzione. A Lubitsch interessano la messinscena e le battute sagaci con cui tratteggiare ancora una volta personaggi perfettamente funzionanti, sistemandoli abilmente in luoghi a lui congeniali: interni lussuosi pieni di porte che si aprono e chiudono – memorabile la scena della cameriera che entra ed esce dalla suite per tornare con le colleghe, tra le grida esultanti dei tre sovietici e del loro ospite Leon fuori campo, divani su cui orchestrare lunghi dialoghi e smussare gli spigoli dei contrasti trasformandoli in baci. D’altra parte tutto ruota attorno a una risata liberatoria e parificatrice, quella improvvisa e prorompente di Greta Garbo che esplode davanti a Melvyn Douglas caduto dalla sedia: da qui l’idillio tra Ninotchka e Leon, Ninotchka e Parigi, Ninotchka e il frivolo cappellino disprezzato all’inizio, tipico oggetto lubitschiano che cambia di segno nel corso della narrazione. Altri oggetti nelle mani di Ninotchka si caricano di significato: i gioielli diventano quello che sono, giocattoli per ricchi con cui una volta tanto travestirsi da principessa; e il sogno di uguaglianza proletaria perde smalto e si riduce alla condivisione di quattro uova per una frittata. Il lieto fine è d’obbligo, situato nell’altrove quasi fantastico di Costantinopoli, lontano dal pregiudizio e dai proclami senza senso, ma forse, come la protesta del povero Kopalski lascia intendere, non dalle giuste lotte.
Chiara Checcaglini, mediacritica.it