Critica
“L’immagine che mi ha più influenzato è il ritratto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck. È una scena all’apparenza semplice, un uomo e una donna che si tengono per mano al centro di una stanza da letto di un ricco appartamento borghese. Eppure è una delle opere più enigmatiche della storia dell’arte. La normalità è piena di mistero”. Roman Polanski
Rosemary’s Baby viene spesso classificato come film dell’orrore eppure il sentimento che lo pervade per almeno tre quarti è quello del terrore dell’invisibile. Roman Polanski, reduce dai successi di Repulsion e Cul-de-sac debutta ad Hollywood adattando l’omonimo romanzo di Ira Levin (che scriverà in seguito anche La fabbrica delle mogli e I ragazzi venuti dal Brasile) e lasciando un’orma importante per molti cineasti a venire (William Friedkin con L’Esorcista, Dario Argento con Suspiria fino a Darren Aronofsky e il suo Mother!).
La storia dei due giovani coniugi Woodhouse, l’attore Guy (John Cassavetes) e la bucolica Rosemary (Mia Farrow) che vanno ad alloggiare a New York nell’American Gothic Dakota Building, si trasforma col passare del tempo in un incubo.
La scelta di narrare gli avvenimenti dal punto di vista di Rosemary regala al film una particolare ambiguità: non è facile distinguere quanto la realtà sia trasformata dallo stato d’ansia della cattolica Rosemary che intuisce la presenza del maligno. La paranoia la induce a sospettare di un complotto che coinvolgerebbe oltre al marito, i due inquietanti vecchietti Minnie (Ruth Gordon, Oscar miglior attrice non protagonista) e Roman Castevet (Sidney Blackmer) e il mefistofelico ginecologo dr Sapirstein (Ralph Bellamy).
Polanski lavora di lima su ogni dettaglio creando un particolare effetto valanga: da una atmosfera gioiosa da soap opera alla Doris Day si passa a un vago senso di inquietudine (come quando inquadra il Dakota dall’alto) e all’effetto sorpresa per una serie di strane coincidenze (il suicidio di Therry, la cecità dell’attore rivale Donald Baumgart che ha la voce di Tony Curtis, la morte dell’amico Hutch).
La ninna nanna di Krzysztof Komeda, l’uso di una illuminazione soffusa, la scelta di inquadrature di dettagli in primo piano (il ciondolo, le lettere dello Scarabeo, i libri, i simboli satanici, il completo premaman in bianco e azzurro) e i lunghi piano-sequenza dentro l’appartamento non fanno che trasmettere una sensazione di pericolo imminente. La casa, luogo sicuro per definizione, nasconde dietro la facciata della familiarità, un perturbante che sembra trasparire dai quadri fuori posto, dall’invadenza dei vicini, dalle pareti sottili da cui si ascoltano voci e cori da messa. Allo stupore subentrano l’ansia e la paura: in un crescendo rossiniano Doris Day si trasforma nella Catherine Deneuve di Repulsion. Polanski muove nervosamente la macchina da presa negli interni mimando il punto di vista nevrotico della giovane sposa. Anche le sembianze fisiche mutano e all’aspetto solare dei primi momenti Mia Farrow propone con grande bravura una immagine tesa, dimagrita, anemica che ha nel taglio dei capelli (il famoso bob cut di Vidal Sassoon) il simbolo di una defemminilizzazione subcosciente.
Il primo sogno di Rosemary ha una netta componente freudiana e mescola ad elementi reali, la proiezione dell’immaginario adolescenziale: vi è contemporaneamente la paura che una cosa accada ma anche il desiderio di esserne posseduti. Mentre John Cassavetes incarna il Faust americano disposto al patto con Mefistofele pur di entrare nel santuario di Hollywood, Mia Farrow regala al suo personaggio una fragilità e una ingenuità che richiamano gli ideali progressisti di fine anni ’60.
La sensibilità di Polanski sembra prevedere la fine di quel mondo di favola (God is dead sulla copertina del Time e il 1969 sarà per il regista un annus horribilis), minato dall’interno da reflussi reazionari rappresentati dal super io genitoriale (i due vecchietti terribili, i due medici, il sommo pontefice in sogno). L’effetto claustrofobico e repressivo riguarda sia gli ambienti interni che quelli esterni: durante il party che Rosemary organizza solo per coetanei (dove compare il guru Michael dei Buddah Fields) l’effetto di derealizzazione determina una crisi di panico. La normalità sembra perennemente avvolta da un alone di mistero e Rosemary non riesce a confrontarsi nemmeno con le sue amiche sui temi dell’aborto e della sessualità.
Nel rapporto tra l’io e l’ambiente socioculturale ad un certo punto l’osmosi diventa unidirezionale e la follia può essere considerata una via di fuga. Nel meraviglioso finale Rosemary passa dal terrore dell’ignoto all’orrore del visibile per poi abbandonarsi all’istinto materno e ad un abbraccio in forma di ninna-nanna che è in parte rassegnazione ed in parte accettazione. O è solo un altro incubo di una donna imbottita di ansiolitici e antipsicotici e in piena depressione post partum?
Fabio Fulfaro, sentieriselvaggi.it