Shutter Island - Cineclub Arsenale APS

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SHUTTER ISLAND

di Martin Scorsese

Durata: 138'
Luogo, Anno: USA, 2010
Cast: Leonardo DiCaprio, Mark Ruffalo, Ben Kingsley, Max von Sydow, Michelle Williams, Emily Mortimer


Sinossi

Nel 1954, i due agenti federali Teddy Daniels e Chuck Aule vengono inviati con un battello a Shutter Island, a largo della costa est, per investigare sull'improvvisa scomparsa di una pericolosa infanticida residente presso l'istituto mentale Ashecliffe, Rachel Solando. Il direttore dell'istituto, il dottor Cawley, e i vari infermieri sostengono che la madre assassina si sia come dileguata dalla sua stanza senza lasciare alcuna traccia, ma l'agente Daniels pare nutrire fin dal principio dei forti sospetti sul modo di condurre l'ospedale da parte del dottor Cawley e del suo medico assistente, il dottor Naehring. Un uragano costringe i due agenti a protrarre il soggiorno sull'isola, durante il quale le indagini proseguono e particolari sempre più inquietanti emergono, mentre Daniels continua ad avere delle visioni che riguardano la moglie defunta e le sue esperienze di guerra contro gli ufficiali nazisti.


Critica

Nel decennio che si è chiuso Scorsese avrà anche ottenuto il tanto sospirato Oscar, ma non ha lasciato un segno, una traccia raffrontabile al suo glorioso passato: ancora per tutti gli anni 90 il regista riusciva a mettere al servizio della dirompente epica di Good fellas e dello sperimentalismo barocco di Casino - due opere imperfette quanto centrali per quel decennio di cinema americano, che ne venne marchiato incontestabilmente - il suo folgorante senso del cinema. Accanto ad essi Cape Fear, meno importante dei sopracitati, ma sostanzialmente più quadrato e lucido e che, complice la committenza, rappresentò una salutare deviazione nel genere (che, nella carriera dell’autore, si va ad associare ad altri tipi di controversa deviazione – L’ultima tentazione di Cristo, L’età dell’innocenza, Kundun -) senza alcuna abdicazione dal soglio autoriale.

Tutto questo è mancato negli anni zero, periodo anodino in cui il talento di Scorsese si è diluito in progetti e progettoni (il survoltato e non disprezzabile biopic The aviator) nei quali la sua intelligenza registica un po’ si dissipava, il binomio estetica-etica si divaricava (anche laddove ci si sarebbe aspettato il suo matrimonio più felice: il tanto inseguito affresco dell’irrisolto Gangs of New York) e il torturante duello tra Bene e Male si appiattiva in formula (The departed), decennio in cui se da un lato avveniva l’incontro con un nuovo straordinario attore feticcio (Di Caprio, il migliore dell’ultima generazione, saliva sul trono che fu di De Niro) dall’altro si registrava la latitanza di quel senso delle cose, quella dilaniata visione della realtà che sembrava lasciare il posto a un diverso tipo di dilemma interiore, quello tra autonomia dal sistema delle major e comoda integrazione. Shutter Island giunge con queste premesse e nel Bene e nel Male (per l’appunto), le supera, affermandosi come film che, dell’opera minore che è, ha soprattutto i pregi: partendo dal bel romanzo di Lehane (già autore di Mystic river e Gone baby gone, tanto per citare altre due opere ridotte per lo schermo) Scorsese costeggia le vie del genere senza però consegnarsi ad esso, usandolo, senza soggiacervi; sulla carta il film sarebbe un thriller, di esso presenta elementi, plot, ambientazione, personaggi, ma il suo andamento, il tipo di attenzione riservato allo sviluppo delle vicende, il blando crescendo che lo segna, contraddicono tale premessa; Scorsese non asseconda quasi mai il congegno della tensione, puntando l’attenzione sul personaggio principale, facendone una maschera tragica, ponendo le vicende che egli vive sullo sfondo, considerandole quasi strumentali a quello che è il suo percorso interiore, che viene decisamente privilegiato. La volontà di operare una sorta di svuotamento della suspense per concentrarsi sull’aspetto umano ed emotivo, la si nota anche dalle scelte di una sceneggiatura che elimina buona parte dei dialoghi più interessanti del testo letterario, molte complessità legate al meccanismo della narrazione e uno degli elementi più spettacolari (il rinvenimento, e la conseguente risoluzione, degli indizi in codice disseminati in quello che scopriremo un coatto excursus investigativo, motivo tra i più seduttivi della pagina scritta e qui praticamente omesso – Teddy, quale ex agente federale, è un esperto decodificatore di messaggi cifrati, il che giustifica anche gli anagrammi del nome proprio e della moglie che opera per favorire la rimozione della sua colpa -). Ma la volontà del regista di distaccarsi dai paradigmi la si nota ancora di più se si riconduce Shutter Island a uno dei filoni più sfruttati negli ultimi anni dal cinema americano: quello del film a chiave con agnizione finale che costringe a rivedere sotto altra luce quanto è stato narrato, che impone una re-visione dell'opera. Anche in questo senso il film contraddice la premessa: Scorsese non fa nulla per dissimulare lo stato confusionale del protagonista, non ha remore nello scoprirsi riguardo alla descrizione del suo malessere, i passaggi onirici sono sempre, fin dall’inizio, manifestamente allucinatori: la rivelazione conclusiva, dunque, non giunge inaspettata alla luce del percorso visionario che Teddy conduce (l'incipit in tal senso è programmatico: una nave emerge da nebbie apertamente simboliche, a seguire stacco su Teddy che vomita); lo svolgimento dell’indagine è borderline come colui che la conduce; persino il fatto che il protagonista indossi per quasi tutto il tempo la tenuta tipica del luogo, non fa che legittimarlo come “interno” all’istituto allo sguardo dello spettatore. Scorsese non usa, insomma, nessuna delle furbizie tipiche del genere che sta(rebbe) praticando, rimanendo saldamente attaccato all'obiettivo della sua rappresentazione: l’uomo Teddy, il suo carattere (Di Caprio è onnipresente, in una prova superlativa che doppia quella di un altro personaggio visionario, lo Hughes di The aviator), il suo percorso guidato verso la coscienza e l’espiazione del male commesso, la praticabile convivenza col senso di colpa ad esso avviluppato (l’uccisione della moglie, il non aver protetto i suoi figli dalla follia di lei e, in precedenza, la devastante esperienza della violenta liberazione del campo di Dachau). Scorsese non accentua, ma lascia in debita controluce, anche le possibili messe in abisso che il finale potrebbe dischiudere: se, come dice la dottoressa nella grotta, i pazzi negano di esserlo e quindi, una volta che sei considerato tale, tutte le tue azioni volte a dimostrare il contrario sono destinate invece a rientrare nello spettro di quelle commesse da un malato di mente, l’esplicita azione volta a dimostrare che invece pazzo lo sei (la scena finale: il non riconoscere, da parte del protagonista, Sheehan come il suo psichiatra, ma, di nuovo, come Chuck, il suo compagno di investigazione), potrebbe essere una manovra lucida per sfuggire definitivamente a quel senso di colpa col quale non riesce a convivere, per ottenere finalmente la sua definitiva estirpazione attraverso la lobotomia; l'intervento chirurgico sarebbe dunque cercato, voluto, ottenuto attraverso un atteggiamento che risponderebbe, con una contrapposta finzione, alla finzione che dominava la “drammatizzazione emotiva” concertata ad arte dai medici, che ha coinvolto tutti gli abitanti dell’isola e che ha condotto Teddy a riappropriarsi della colpa dalla quale ha tentato di fuggire per due anni (altri territori interpretativi possono essere battuti, in primo luogo politici, e altre letture sono possibili, come quella della demonizzazione del complottismo come deriva paranoica, stratagemma con il quale il Sistema si tutela, e/o Shutter Island come possibile proiezione mentale di un protagonista - cfr. Allucinazione perversa di Adrian Lyne - sottoposto a trattamento manipolatorio ecc.). L’autore, questo ci preme dire, per quanto non li disinneschi, non sfrutta questi elementi di ambiguità, e dimostra, con una vivacità che non gli riconoscevamo da tempo, il duplice carattere del suo cinema, estremamente disciplinato e al tempo stesso estremamente ribelle, da un lato legato a filo doppio ai classici, dall’altro sprezzante delle regole come pochi altri. Se le atmosfere richiamano dunque i noir anni 40 e 50 (accanto alla complessità dell'intreccio, fa riscontro, classicamente, la semplicità di alcuni riferimenti - gli occhiali freudiani di Von Sydow -), l’ombra di Hitchcock e le sue figure mentali si stagliano peraltro sul film e non solo per i dati tematici e per la loro elaborazione (da Psycho a Marnie, passando per Il sospetto), ma anche per il modo di trattare l’immagine (Vertigo, Gli uccelli); ancora una volta, però, lo Scorsese cinefilo (anche Fuller è della partita) non cita, i riferimenti sono parte integrante del suo pensare cinema e agiscono naturalmente all’interno del suo film, la storia della settima arte è introiettata nel suo occhio e si mostra senza calcoli, il regista non abbassando mai lo sguardo da quello che ha deciso di porre come epicentro del suo film: il personaggio, le sue parole, le sue azioni.

Insomma, pur nei limiti di un’opera chiaramente commerciale, è uno Scorsese piuttosto oscuro e sconcertante quello di Shutter Island, che tratta dell’'insostenibilità del peso della Colpa e della sua rimozione (cfr. Angel Heart di Parker); che fa dell'isola del titolo un teatro asfissiante popolato di presenze e assenze, spazio chiuso in cui si mettono in scena ossessioni; che cala il protagonista in un incubo costante, con la tempesta metaforica come minaccia incombente; che è attratto dal labirinto non tanto per le sue implicazioni narrative (la macchinosità non viene mai ribaltata a vantaggio della spettacolarità, anzi), quanto per le conseguenti atmosfere mortuarie e soffocanti, sottolineate dalla consueta, percettiva macchina da presa (la splendida fotografia è di Robert Richardson), un film in cui il regista punta sul linguaggio, più palesemente rispetto al passato prossimo. Se i flashback di Dachau sanno di brutta maniera, le apparizioni fantasmatiche dimostrano felici intuizioni (la sublime pioggia di cenere), la parte del Padiglione C è di vaneggiante bellezza, il prefinale (la sequenza sul lago che segue al massacro dei figli da parte di Dolores) è di intensità drammatica quasi insostenibile, e se tutto quello che vediamo è una messinscena (il colossale psicodramma) allora è lo stesso film che la presenta continuamente come tale (elemento questo che ci ricorda The game, riferimento che, associato al tema dello allo sdoppiamento di personalità - Fight Club - ci fa pensare molto a Fincher): il regista come al solito rimette tutto al visibile e non la dissimula, anzi la sottolinea e a tratti quasi la enfatizza; se tutto avviene secondo un copione che parte dalla piena conoscenza del delirio di Teddy, un delirio loopato ai medici per due anni, se la rappresentazione inconsapevole deve servire come percorso che conduca Teddy/Andrew alla piena coscienza di sé (molto scorsesiana questa cosa, tra l’altro), in cui tutto è programmato per fare luce sui suoi ricordi, sollecitati da elementi strategici a lui familiari (dalla musica di Mahler nello studio del direttore, alla paziente fuggita, assassina di tre figli), al più ampio gioco rivelatorio allora partecipa lo stesso Scorsese (ad esempio quando la mdp inquadra Ruffalo, ogni volta che si fa riferimento al dottor Sheeane), rimarcando il dato, prevedendo la revisione dell'opera da parte dello spettatore sedotto.

Luca Pacilio, sentieriselvaggi.it