Star Wars: Episodio IX - L'ascesa di Skywalker - Cineclub Arsenale APS

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STAR WARS: EPISODIO IX - L'ASCESA DI SKYWALKER

di J.J. Abrams

Durata: 155'
Luogo, Anno: USA, 2019
Cast: Carrie Fisher, Mark Hamill, Adam Driver


Sinossi

La resistenza resiste, ma ne rimane ben poco: uno sparuto gruppo di uomini e donne tra cui Leia Organa, Dameron Poe, Finn, Rose Tico e Rey, in cui la Forza scorre potente. Il Primo Ordine non è riuscito a sterminarli solo grazie al sacrificio di Luke Skywalker, che in una sorta di proiezione spettrale ha attirato su di sé il fuoco avversario e sfidato a duello Kylo Ren, permettendo agli altri di mettersi al sicuro e di continuare a combattere ancora un anno dopo essere scampati all'eccidio. Kylo, affiancato dal generale Hux, ha preso il controllo dell'Ordine dopo aver ucciso Snoke (insieme a Rey, che ignorava però il suo vero piano) e ora niente sembra in grado di fermarlo. Ma Rey ha portato con sé il testo sacro degli Jedi...


Critica

L'intuizione di Abrams, se così la vogliamo chiamare, è ovvia e dichiarata fin dall'inizio. Da quelle scene in cui il Kylo Ren di Adam Driver scende nei meandri del pianeta dei Sith per confrontarsi con quel Palpatine che non è vivo, ma nemmeno morto. Dai toni che sembrano quasi voler flirtare con quelli di certo cinema horror. E' un film che con la morte ci va a braccetto. Un film di morti e non morti, di fantasmi, di ombre del passato che si stagliano sul presente, e sui protagonisti di questo presente, incombendo su di loro e sul loro destino. Perfino oscurandoli. A dispetto di tutti i tentativi di superarlo fatti da Rian Johnson in Gli ultimi Jedi, questo che chiude la nuova trilogia di Star Wars è un film che, in un certo senso e a dispetto di tutto, perfino di certe apparenze, non fa altro che denunciare l'incapacità sua e dei due film che l'hanno preceduto di emanciparsi dal modello originale, dalla sua storia, dal suo mito. Rey, Poe Dameron, Finn, Kylo Ren: tutte copie un po' sbiadite di originali che è facile individuare; tutti figli (metaforicamente e non) di una generazione che lascia loro spazio e modi di emancipazione, che li condanna a rimanere nella loro ombra, nella loro scia, a ripercorrere sempre gli stessi tragitti, visitare gli stessi pianeti e gli stessi luoghi, a combattere sempre le stesse battaglie. Perfino quelle interiori. A confrontarsi - spesso letteralmente - coi loro fantasmi e a diventare fantasmi anche loro. In questo, forse, una metafora della Generazione X e dei Millenial che anche nella vita reale sono rimasti schiacciati dai Boomer, e che però da loro hanno mutuato riferimenti, miti e ossessioni. Sono i residuati di allora - fantasmi o meno - a dominare la scena, ad avere, se non il carisma, le chiavi della trama in tasca. Abrams lo sa, e gioca su questo in maniera da superare i vezzi da modernariato vintage. Senza più troppi ammiccamenti, senza strizzate d'occhio eccessivamente modaiole, senza retromanie ostentate. Perché, da un lato, c'è rimasto poco da spremere (e il riapparire di Lando Carlissian non è esattamente memorabile). E perché in fondo, qui, di Star Wars si celebra una sorta di funerale, con tanto di simbolica sepoltura nel finale. E i morti e i fantasmi chiamano a sé i vivi, quelli che rimangono, portandoli via con loro o facendone degli avatar, delle repliche, degli ultracorpi. Che possono anche avere lo stesso nome, possono anche vedere la Forza scorrere più potente in loro che in quanti prima di loro sono venuti: ma non avranno mai lo stesso spessore né il coraggio di prendere la loro strada, una strada nuova, che li liberi dal retaggio del passato. Sta qui, forse, in questa ammissione di superiorità, il senso - l'unico possibile? - della chiusura di questa trilogia. Che ha provato a rilanciare un marchio, senza comprendere subito che il nuovo prodotto, esaurito lo slancio della patina vintage e della forza della nostalgia, non poteva competere col vecchio. Come col vecchio non possono competere l'estetica, l'epica né la narrativa. E chissà allora se, aderendo in maniera vagamente inquietante con la forma-blockbuster standard della sua produzione di riferimento, nella quale velocità, caos visivo e meccanicità del copione (per non parlare della banalità dei dialoghi) hanno inevitabilmente la meglio sullo sguardo, sul dettaglio e sulla struttura del racconto, su di un cinema che qualcuno vuol farci credere non serva più, Abrams non stia, furbamente, anche facendo una doverosa autocritica.

Federico Gironi, Coming Soon