Critica
A volte pensiamo che le coincidenze esistano solamente nei film e che, se ci capitano nella vita, è solamente perché questa, con un’improvvisa impennata, si trasforma per qualche istante in una storia da grande schermo. Cosa accade, allora, quando sullo schermo di dipana di fronte a noi una storia incredibile come nemmeno un grande sceneggiatore avrebbe immaginato, che è addirittura il soggetto di un documentario?
Certo, gli improbabili intrecci della vita possono sorprenderci e forse proprio nella realtà si annidano le storie più incredibili. In questo senso The girl who saved my life non è un’esagerazione né un titolo ad effetto, potrebbe essere la didascalia, cruda e diretta, di quanto accade a Hogir Hirori tra il 2014 e il 2015 nel Kurdistan Iracheno.
Il documentario racconta la storia personale di Hogir, “amico” in curdo: un intreccio tra l‘esodo degli Yazidi dal Kurdistan iracheno invaso dall’ISIS e la sua fuga da quella stessa area negli anni Novanta a causa delle persecuzioni di Saddam Hussein. Passano gli anni, ma non cambiano le sensazioni che si provano, così come immutate sono le vicende personali di chi si incontra per la strada.
Proprio lì, dietro ad una cisterna, Hogir incontra Souad, una bimba di soli 11 anni. Non mangia da giorni, delira. I suoi lamenti, sussurrati, rompono il sottile velo che separa il reporter dal protagonista della storia. È l’umanità a prevalere, l’idea che prima di tutto siamo persone e come tali instauriamo relazioni e rapporti l’uno con l’altro. Hogir si trova di fronte ad un bivio: restare con Souad o partire per le montagne della regione di Sinjar per vedere da vicino cosa sta accadendo al fronte.
La scelta di Hogir apre un vortice di ricordi, dilemmi e riflessioni che lo ricondurranno, inquieto, tra la Svezia e il Kurdistan più e più volte. La spasmodica ricerca di quella bambina che ha cambiato la sua vita gli permette di tessere i fili di un racconto a più voci che ci conduce nel cuore della guerra contro l’ISIS tra sfollati e resistenza, dalla parte di chi ha perso tutto, a volte anche la speranza, ma non la voglia di tornare e vivere nella propria terra.
The girl who saved my life è un viaggio in una terra arida, dove i segni dell’odio e della violenza sono tangibili tanto nelle case distrutte quanto nei volti dei tanti protagonisti. Le loro vicende diventano occasione per riflettere sulla brutalità di quanto sta accadendo ormai da alcuni anni tra Siria e Iraq. Esiste, tuttavia, un ulteriore piano della narrazione, quello delle vicende personali del regista che richiamano decenni di vessazioni e discriminazioni subite dai curdi ad opera del potente di turno. Emerge, però, anche lo spirito mai sopito di questa popolazione così come spicca la storia di Khalid che, dopo aver messo in salvo la sua famiglia, riparte alla volta delle montagne per unirsi alla resistenza e combattere l’invasore islamista.
Hirori ci conduce anche nella sua casa, risparmiata perché sin troppo povera; ci accompagna tra i morti seppelliti tra le montagne e tra i vivi che ricompongono la propria instabile esistenza tra decine e decine di tende; ci mostra come, oggi in Kurdistan, forse hai bisogno di pagare per ritrovare e salvare tua sorella e ti può capitare di “perdere” i tuoi figli, come se fossero un mazzo di chiavi. Qualcuno, all’inizio del film, sospira: “Sarebbe stato più facile morire“. The girl who saved my life, da un certo punto di vista, conferma che sì, è vero, lasciarsi andare e spegnersi sarebbe la scelta più semplice. Tuttavia, soprattutto quando si cammina tra le montagne, non si può mai sapere cosa scopriremo dopo un passo o dopo una svolta. E magari proprio lì potrebbe celarsi quella ragazzina debole che, senza saperlo, ha cambiato la tua vita e a cui, forse, l’hai cambiata anche tu.
Angela Caporale, thebottomup.it