Critica
Non aspettatevi che i fatti che vedrete raccontati in Tonya siano tutti veri, ce lo dice lo stesso regista Craig Gillespie all’inizio del film. La confezione è quella di un falso documentario, un mockumentary che inizia a giocare con lo spettatore dal primo fotogramma e non la smette più. L’autore di Lars e la ragazza tutta sua prende una sceneggiatura che accumulava polvere nei cassetti di Hollywood e ne fa una parabola sull’ossessione per la riuscita di una pattinatrice, Tonya Harding, figlia del proletariato white trash della provincia americana, sguaiata e senza grande talento. La perfida madre, una Crudelia Demon interpretata magnificamente da Allison Janney, le inculca l’ossessione per la vittoria, per lei unica ragion d’essere dello sport; diventare i migliori e farci un mucchio di soldi. In questo senso il pattinaggio non è una scelta legata a sincera passione, ma solamente un mezzo, l’unica cosa in cui Tonya riesce nella vita, come urla disperata quando i suoi piani di gloria si schiantano contro un muro di fatti da cronaca nera. Quali piani? Arrivare sul podio alle Olimpiadi invernali di Albertville e battere la rivale e connazionale Nancy Kerrigan, più bella, aggraziata, elegante e talentuosa di lei. Perché il film di Gillespie è anche una delle molte variazioni di questa stagione del cinema americano sullo sport come terreno di battaglia fra talento e applicazione, doti naturali e sacrificio spinto all’ossessione. Tonya è Borg, la Kerrigan è McEnroe, se ci consentite.
Non fatevi ingannare dal ritmo trascinante e l’ironia a palate, il film si svela nell’ultimo terzo come uno struggente ritratto della solitudine di una donna incapace di sfuggire a un destino di mediocrità scritto nei geni. La figura tragica spesso lascia spazio al suo beffardo alter ego grottesco, specie quando Gillespie si fa prendere la mano e nell’ultima parte sembra scimmiottare un commedia nera con dei criminali da due tacche alla Fargo. Il compagno che la sfortunata Tonya si ritrova è semplicemente un veicolo per fuggire dalla tremenda madre, il primo che l’ha degnata di più di uno sguardo distratto; non è certo più furbo di lei, è anzi l’anello debole del mezzo complotto per spaccare le gambe alla rivale di piroetta. Per di più picchia la nostra eroina la quale, dopo una fugace speranza di rinascita, sembra ricadere nella terribile auto convinzione di meritarsele, quelle botte.
Come avete intuito gli argomenti drammatici non mancano, mentre la capacità del regista australiano sta nel dosarli con originalità per dare maggiore spessore alla sua Tonya, fermandosi appena prima di renderla una macchietta. Merito anche di una convincente Margot Robbie, che sarà anche imbruttita per l’occasione, ma senza che la circostanza ci resti in testa durante la visione, lasciando spazio a un senso di empatia e di vicinanza di cui le va riconosciuto in pieno il merito.
Tonya Harding nello spazio di pochi mesi divenne una delle tante vittime dello schiacciasassi mediatico americano, vittima sacrificale dell’indignazione generale, proprio perché anello debole della catena alimentare di quella società, senza troppe armi per difendersi. Niente seconda opportunità per lei, solo patetici tentativi di riciclarsi come pugile; ma la carriera fu breve, durò solo sette incontri, per problemi d’asma. Almeno così spiegò, che sia o no l’ennesima menzogna di una vita più simile a un mockumentary.
Mauro Donzelli, comingsoon.it