Un mostro dalle mille teste - Cineclub Arsenale APS

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UN MOSTRO DALLE MILLE TESTE

di Rodrigo Plá

Durata: 75'
Luogo, Anno: Messico, 2015
Cast: Jana Raluy, Emilio Echevarria, Sebastián Aguirre


Sinossi

Guillermo cade dal letto in piena notte. Emergenza. Il cancro di cui soffre sta peggiorando seriamente. Il trattamento, speciale e costoso, esiste. Ed è necessario ottenerlo rapidamente. La moglie, Sonia Bonet, decide di presentarsi dal medico dell’assicurazione sanitaria che lo tiene in cura da molto tempo per convincerlo a rivedere la pratica del trattamento oncologico, negato dall’azienda. Dopo innumerevoli tentativi e snervanti attese, la donna, accompagnata dal giovane figlio, decide di seguire fino a casa il medico che si è rifiutato di riceverla poco prima. Giunta alla sua abitazione, lo prega di controllare i documenti che negano il diritto al marito malato di usufruire dell’unica terapia che fino ad ora è stata efficace, bloccando le metastasi e riducendo del trenta per cento il cancro dell’uomo. Nonostante le suppliche della donna, il medico si rifiuta di aiutarla. Sonia, così, in preda alla disperazione tira fuori dalla borsa una pistola con cui minaccia il medico e sua moglie, fino a che i due non le rivelano i nomi dei responsabili a cui si deve rivolgere per sbloccare la pratica. Sonia, allora, con l’aiuto del figlio, lega i due e si reca ad un centro sportivo per incontrare il direttore della società d’assicurazione. Con l’arma in mano costringe l’uomo ad andare dagli altri dirigenti affinché le sblocchino la pratica. Ma quando il lungo calvario sembra finalmente essere giunto al termine, una tragica notizia sorprenderà madre e figlio.


Critica

Nato in Uruguay ma trasferitosi in Messico, Rodrigo Plá è sicuramente uno dei nomi da tener presente nella rinascita del cinema in America Latina. L’aveva dimostrato nel 2007 con il suo film d’esordio (La Zona, premio opera prima a Venezia), lo conferma adesso con questo Un mostro dalle mille teste, che l’anno scorso era stato scelto sempre al Lido per inaugurare la sezione parallela Orizzonti e che i bravi distributori di Cineclub Internazionale fanno ora arrivare in Italia nella versione originale sottotitolata. Il che permetterà meglio di apprezzare la bella prova della protagonista Jana Raluy, una delle grandi interpreti del teatro messicano che fino ad ora aveva poco frequentato il cinema (di più la televisione, ma soprattutto serie che in Italia non sono ancora arrivate). Nel film è Sonia Bonet, moglie di un malato di cancro che sembra dover lottare non solo contro la malattia ma anche una certa noncuranza dei medici. E proprio dopo un’ennesima crisi notturna, la moglie decide che è meglio parlare direttamente con il medico curante, il dottor Villalba (Hugo Albores). Ma la struttura mutualistica presso cui lavora, Alta Salud, sembra mettere continui ostacoli: prima un centralino piuttosto respingente, poi — presentatasi di persona — attese defatiganti e una segretaria il cui unico scopo sembra quello di impedire l’incontro col medico. Così, nonostante gli inviti alla calma del figlio Dario (Sebastián Aguirre) che la segue in queste peregrinazioni, Sonia decide di pedinare il dottore fino a casa sua: in fondo sembra che basti una rapida occhiata agli ultimi esami del malato perché si possa decidere una nuova cura capace di farlo soffrire meno. Ma quando gli arriva in casae lo blocca mentre lui vorrebbe andare a giocare a squash con i colleghi, Sonia deve estrarre la pistola che nascondeva nella borsa per farsi ascoltare. Oltre a scoprire che pur essendo il medico curante del marito, il dottor Villalba non può fare niente: l’autorizzazione per cambiare le cure deve essere firmata dal direttore generale Sandoval (Emilio Echevarría), uno delle persone che aspettano il medico in palestra per giocare. Così, tra la paura di chi si vede un’arma puntata contro e lo stupore del figlio che non si capacita delle azioni della madre, il film prende quell’andamento, tra il dramma e la commedia involontaria, che diventa la cifra espressiva della messa in scena di Plá. Il regista — riprendendo una distanza dalle cose narrate che aveva già messo in pratica per La Zona — non vuole seguire la strada tradizionale che funzionerebbe in un film hollywoodiano, dove il piccolo Davide subisce i soprusi dei Golia della medicina alla ricerca di una strada (spesso legale) per far valere le proprie ragioni. Naturalmente c’è anche questa lettura: la si capisce da certi discorsi tra Sonia e Sandoval, quando lui sembra aver accettato — sempre sotto la minaccia della pistola — di collaborare rivelandole una serie di regole «segrete» tutte favorevoli alla logica imprenditoriale della società mutualistica. Ma il film non cavalca queste «rivelazioni», piuttosto sembra inseguire la voglia di sorprendere lo spettatore, a volte con un sorriso (l’irruzione di Sonia nel club di squash tra chi si fa la doccia nudo), a volte con un colpo di scena (la reazione di David quando vede la madre minacciata), a volte sottolineando l’ingenuità della donna che non ha assolutamente immaginato in che ginepraio si stia cacciando. E che il regista non voglia nemmeno giocare troppo con le aspettative dello spettatore — come andrà a finire questa inaspettata odissea? — lo si intuisce da una serie di voci fuori campo che ogni tanto fanno capire come tutto si sia concluso con un processo, di cui sentiamo alcune delle domande e delle risposte dei testimoni. Ma anche qui, ancora, senza offrire alcuna soluzione definitiva. Anzi, l’ultima inquadratura, con l’ingresso della corte in aula ripresa da quattro punti differenti (telecamere di sicurezza? Film nel film per svelare i diversi punti di vista?) si ferma proprio sul più bello, come se il regista volesse ribadire che il «giudizio» finale spetta a ognuno degli spettatori e che il compito del cinema è caso mai quello di offrire gli elementi che possono servire a ognuno per costruire il proprio giudizio.] Nato in Uruguay ma trasferitosi in Messico, Rodrigo Plá è sicuramente uno dei nomi da tener presente nella rinascita del cinema in America Latina. L’aveva dimostrato nel 2007 con il suo film d’esordio (La Zona, premio opera prima a Venezia), lo conferma adesso con questo Un mostro dalle mille teste, che l’anno scorso era stato scelto sempre al Lido per inaugurare la sezione parallela Orizzonti e che i bravi distributori di Cineclub Internazionale fanno ora arrivare in Italia nella versione originale sottotitolata. Il che permetterà meglio di apprezzare la bella prova della protagonista Jana Raluy, una delle grandi interpreti del teatro messicano che fino ad ora aveva poco frequentato il cinema (di più la televisione, ma soprattutto serie che in Italia non sono ancora arrivate).

Nel film è Sonia Bonet, moglie di un malato di cancro che sembra dover lottare non solo contro la malattia ma anche una certa noncuranza dei medici. E proprio dopo un’ennesima crisi notturna, la moglie decide che è meglio parlare direttamente con il medico curante, il dottor Villalba (Hugo Albores). Ma la struttura mutualistica presso cui lavora, Alta Salud, sembra mettere continui ostacoli: prima un centralino piuttosto respingente, poi — presentatasi di persona — attese defatiganti e una segretaria il cui unico scopo sembra quello di impedire l’incontro col medico. Così, nonostante gli inviti alla calma del figlio Dario (Sebastián Aguirre) che la segue in queste peregrinazioni, Sonia decide di pedinare il dottore fino a casa sua: in fondo sembra che basti una rapida occhiata agli ultimi esami del malato perché si possa decidere una nuova cura capace di farlo soffrire meno.

Ma quando gli arriva in casae lo blocca mentre lui vorrebbe andare a giocare a squash con i colleghi, Sonia deve estrarre la pistola che nascondeva nella borsa per farsi ascoltare. Oltre a scoprire che pur essendo il medico curante del marito, il dottor Villalba non può fare niente: l’autorizzazione per cambiare le cure deve essere firmata dal direttore generale Sandoval (Emilio Echevarría), uno delle persone che aspettano il medico in palestra per giocare. Così, tra la paura di chi si vede un’arma puntata contro e lo stupore del figlio che non si capacita delle azioni della madre, il film prende quell’andamento, tra il dramma e la commedia involontaria, che diventa la cifra espressiva della messa in scena di Plá.

Il regista — riprendendo una distanza dalle cose narrate che aveva già messo in pratica per La Zona — non vuole seguire la strada tradizionale che funzionerebbe in un film hollywoodiano, dove il piccolo Davide subisce i soprusi dei Golia della medicina alla ricerca di una strada (spesso legale) per far valere le proprie ragioni. Naturalmente c’è anche questa lettura: la si capisce da certi discorsi tra Sonia e Sandoval, quando lui sembra aver accettato — sempre sotto la minaccia della pistola — di collaborare rivelandole una serie di regole «segrete» tutte favorevoli alla logica imprenditoriale della società mutualistica. Ma il film non cavalca queste «rivelazioni», piuttosto sembra inseguire la voglia di sorprendere lo spettatore, a volte con un sorriso (l’irruzione di Sonia nel club di squash tra chi si fa la doccia nudo), a volte con un colpo di scena (la reazione di David quando vede la madre minacciata), a volte sottolineando l’ingenuità della donna che non ha assolutamente immaginato in che ginepraio si stia cacciando.

E che il regista non voglia nemmeno giocare troppo con le aspettative dello spettatore — come andrà a finire questa inaspettata odissea? — lo si intuisce da una serie di voci fuori campo che ogni tanto fanno capire come tutto si sia concluso con un processo, di cui sentiamo alcune delle domande e delle risposte dei testimoni. Ma anche qui, ancora, senza offrire alcuna soluzione definitiva. Anzi, l’ultima inquadratura, con l’ingresso della corte in aula ripresa da quattro punti differenti (telecamere di sicurezza? Film nel film per svelare i diversi punti di vista?) si ferma proprio sul più bello, come se il regista volesse ribadire che il «giudizio» finale spetta a ognuno degli spettatori e che il compito del cinema è caso mai quello di offrire gli elementi che possono servire a ognuno per costruire il proprio giudizio.

Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera