Critica
Dopo Apache, ritratto secco e crudele della Corsica contemporanea, Thierry de Peretti fa un passo indietro nel tempo, concentrandosi sul quotidiano della gioventù corsa che alla fine degli anni Novanta s'invaghì dell'indipendenza. Affresco politico e tragedia intima, Una vita violenta evoca un periodo preciso della storia del movimento indipendentista corso, afferrato al collo dalla deriva mafiosa, dalle rappresaglie e le lotte fratricide che falceranno la giovinezza locale. Ispirato alla vita di un giovane militante nazionalista, Nicolas Montigny, assassinato a Bastia nel 2001, il film conferma l'attaccamento viscerale dell'autore per la sua terra. Una passione romantica che condivide coi suoi antieroi, per cui si converte progressivamente in un impeto patetico e suicida. Un impeto di gruppo in un'epoca (1997-2001) in cui regnava la confusione: il banditismo fa il suo ingresso nelle fila del Fronte di Liberazione Nazionale, provocando una scissione e un regolamento sanguinoso di conti che vuota il movimento del suo senso. Giudicato corrotto, il FLNC 'cede il passo' all'Armata Corsa in cui confluiscono i protagonisti in una scalata sorda e ineluttabile di violenza, che il regista filma da lontano come ogni altro atto brutale del film. Perché il crimine in Una vita violentaè indecifrabile. Dopo un prologo parigino e borghese, il debutto abbraccia bruscamente una drammaturgia fisica. Sullo sfondo di un campo affollato di lavoratori agricoli, irrompono degli uomini armati. Spari, esecuzione sommaria, incendio di un'automobile e di due corpi, Thierry de Peretti filma in piano sequenza, mantenendosi distante e donando immediatamente il tono del film: l'ineluttabilità fa il suo ingresso e conduce gioco e intrigo fino al punto culminante, la lotta insulare fino alla morte. Quella che cova ad ogni angolo anche per il giovane protagonista, ordinario, scapigliato e votato a un collettivo (decimato) a cui sopravvive e da cui riemerge adulto, consentendo infine di essere chiamato per nome. In risonanza con i classici del genere (Il padrino, Quei bravi ragazzi), soprattutto nel disegnare il percorso fatale dei suoi protagonisti, Una vita violenta esibisce fiero la sua singolarità, ancorata alla realtà corsa, ai suoi paesaggi, alla sua luce, alla sua lingua, agli accenti e alla frattura sociale e culturale che provocò la deriva evocata. Diversamente dai modelli citati, il regista mantiene le distanze dai suoi personaggi e dai loro atti, al riparo dalla seduzione della violenza e alla ricerca di un rapporto quasi mitico tra la maledizione e le loro esistenze, che la sfidano fino a subirla e a soccomberle. Alla guida di un cast di attori ispirati e capaci di cogliere naturalmente la materia del film, la confusione morale e politica, l'ambiguità di una lotta tinta di romanticismo, la relazione col nazionalismo, il bisogno di lasciare la propria terra o di ritornarci, la tentazione del guadagno facile, Thierry de Peretti non giudica i suoi personaggi ma ne osserva la crescita in relazione alla violenza, con, malgrado o contro la violenza. Dentro un piano sequenza finale, una lunga promenade sotto il sole di Bastia, non resta che la tragedia di un giovane uomo che accetta e attende il suo destino. Un procedere allertato che assomiglia a un'istante di eternità.
Marzia Gandolfi, mymovies.it