Critica
L’America: il grande mito, la patria del(l’apparente) benessere economico, dei grandi spazi, della grande industria cinematografica, della bella vita, della ricchezza, del lusso, dei numerosi fast food, della moda. Ma anche una nazione in cui se sei indigente rischi di essere totalmente emarginato, in cui solo recentemente si è cercato di ridimensionare un sistema sanitario vergognoso. La nazione in cui è stato eletto un presidente come Donald Trump. La patria della follia, della violenza, di una sorta, se vogliamo, di “fascismo latente”, per anni oggetto di satira da parte di intellettuali, ma che, tuttavia, sembra sempre radicato in una società che, a tratti, dà tutta l’impressione di essere “di plastica”. Tutto ciò non può non portare ad un certo malessere generale, che, a sua volta, spesso e volentieri degenera nel peggiore dei modi: la violenza ingiustificata contro sé stessi e contro chi ci circonda. Ma, a tal proposito, quanto peso hanno le armi possedute da ogni singolo cittadino? È sensato che la possibilità di acquistarle sia data a chiunque, a prescindere dalla situazione delle singole fedine penali? Su tali quesiti – e sull’iter legislativo circa la vendita di armi a privati – si concentra il documentario di Stephanie Soechtig nonché narrato e prodotto da Katie Kouric, Under the Gun, presentato in anteprima alla XV edizione del Rome Independent Film Festival.
Un tema, questo, che già da molto tempo ha destato l’attenzione di cineasti e documentaristi. Basti pensare, ad esempio, al bellissimo Elephant di Gus van Sant o al documentario Bowling a Columbine di Michael Moore, giusto per citarne alcuni. Qui, ovviamente, ci troviamo di fronte a qualcosa di totalmente diverso, sia da un punto di vista della forma, che dal punto di vista della tesi che la regista ha voluto portare avanti. Ma andiamo per gradi.
Fin dai primi minuti vediamo sullo schermo le immagini del terribile massacro della scuola Sandy Hook, dove persero la vita 20 bambini: immagini di repertorio che si mescolano a fotografie, insieme ad interviste ai genitori di alcune delle vittime. Il documentario adotta fin da subito un andamento lineare e molto chiaro, sia nell’esporre i fatti accaduti, sia nell’esplicare il lungo iter per poter promuovere una legislazione adeguata circa la necessità di regolamentare la vendita di armi a privati.
Pur prendendo determinate posizioni, la regista non manca di mostrarci i diversi punti di vista in merito, siano essi di gente esaltata o di mamme che vogliono solo proteggere i propri bambini, classificandosi sin dal principio come un prodotto a cui tutto si può dire tranne che non sia intellettualmente onesto. Senza dubbio, ci troviamo di fronte ad un documentario ricco e variegato, sia per quanto riguarda i temi portati sul grande schermo, che per le scelte di messa in scena adottate, che prevedono un uso copioso della musica – spesso in crescendo, a seconda di ciò che si sta raccontando – oltre a, come abbiamo detto, l’alternarsi di fotografie d’epoca e filmati di repertorio. Il tutto montato in modo omogeneo e con i giusti ritmi. Il risultato finale, però, è un prodotto che vedremmo maggiormente “a proprio agio” su di uno schermo televisivo, piuttosto che in una sala cinematografica. “Colpa”, appunto, dell’uso eccessivo della musica, “colpa” del montaggio, “colpa” dello slogan in chiusura che invita i cittadini a votare per limitare la vendita di armi, così come della scelta di esplicare i fatti in tono prettamente “giornalistico”, senza abbellimenti od orpelli alcuni.
Ma sta bene. Malgrado la penalizzazione dell’estetica, Under the Gun riesce nel suo intento primario: quello di informare i cittadini e di esplicare i fatti. E questo, di sicuro, è già qualcosa.
Marina Pavido, Cineclandestino