Critica
Non vi è una trama lineare, una narrazione definita, così come nella vita di questi ragazzi, non vi è niente di nitido o scelto, niente di se stessi che potrebbero raccontare. Diciamo che in questo senso anche la forma del film è una vera e propria rappresentazione del loro modo di vivere, un eterno rave psichedelico (vi è una buona mezz’ora del film che è incentrata totalmente proprio su una di queste feste), il fluire di questo vivere apatico, abulico e senza scopo, in cui si ride senza senso sotto l’effetto di una canna ma non si sa perché, un mondo incurante, le sue luci, la sua musica martellante e monotona, senza melodia, l’assenza totale di soggettività. Un quadro nel quale tutto viene inghiottito, ma sopratutto la creatività, l’entusiasmo, qualsiasi interesse reale e individuale. Ogni cosa viene vissuta per inerzia: un colloquio di lavoro, lo studio, le relazioni, perfino il sesso. Anche l’affetto c’è, ma non importa tanto con chi lo si vive, è una specie di orpello accessorio che segue poco più dell’attrazione immediata del momento ma, con lo stesso poco slancio impersonale con cui è iniziato, finisce o viene rivolto ad altri, si tratti di amicizia o di coppia. Il giovane regista rappresenta un mondo verso il quale non è mai giudicante o critico, documentandolo senza appesantirlo con moralismi superflui. A più di una persona che lo ha visto, il film ha ricordato, per struttura e per contenuti, l’ultimo film di Abdellatif Kechiche, Mektoub, My Love: Canto Uno, presentato quest’anno a Venezia, che ha riscosso molto più consenso, ma, che a uno sguardo più accurato, può considerarsi meno autentico e più furbo rispetto a questa opera d’esordio di un ventunenne che, seppur meno matura, è un lavoro più sincero, meno ammiccante e più apprezzabile.
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