UN ANNO ALL'INSEGNA DEL MUSICAL
Nel 2010 un regista appena venticinquenne debuttava al cinema con Guy and Madeline on a Park Bench, un musical che rompeva le regole sia per l’uso (per precisa scelta artistica) del bianco e nero che per l’affinità con il mumblecore, un movimento cinematografico indipendente nato dieci anni prima negli Stati Uniti: tono minimal, recitazione naturalista, dialoghi logorroici e spesso improvvisati o, come suggerisce il nome del movimento, borbottati. Anche la trama di Guy and Madeline, che ha partecipato in concorso al Torino Film Festival, rispettava le regole del mumblecore, narrando una storia di vita quotidiana fra persone “normali” - una cameriera e un musicista, entrambi ventenni. E il budget era davvero microscopico. Ma non erano microscopiche le ambizioni del regista, quel Damien Chazelle che, sette anni dopo, sarebbe stato candidato a 14 Oscar per il suo secondo musical cinematografico, La La Land. Ed era evidente già da quel film di esordio l’amore del regista-sceneggiatore per la musica, evidente anche nel suo secondo lungometraggio, Whiplash, protagonista un aspirante batterista. Se Guy and Madeline omaggiavano il cinema di John Cassavetes più che quello di Vincent Minnelli, La La Land ripercorre tutta la storia del musical internazionale dagli anni ’30 in poi, citando classici come Voglio danzar con te e Balla con me, Un giorno a New York e Un americano a Parigi, Cantando sotto la pioggia e Spettacolo di varietà, Funny Face e West Side Story, Les Parapluies de Cherbourg e Josephine, Sweet Charity e Grease, fino a quel Moulin Rouge che apriva il Ventunesimo secolo con una carrellata vertiginosa quanto il piano sequenza iniziale di La La Land. Ma il cinema di Chazelle non è meramente citazionista. Nelle parole del regista, è “audace e liberatorio” come lo stesso genere musical, ed ha alterato (in positivo) il linguaggio cinematografico, aprendo la porta ad altre sperimentazioni. “Senza La La Land non ci sarebbe stato Baby Driver”, ha dichiarato Edgar Wright, riferendosi al fatto che Chazelle ha dovuto aspettare sei anni per far approvare il suo film a Hollywood, mentre per Wright l’attesa è stata molto più breve. Anche Baby Driver, che Wright descrive come “un film d’azione guidato dalla musica”, è a suo modo un musical, malgrado nessuno dialoghi cantando, poiché il ritmo della recitazione e del montaggio è costruito sulla base della colonna sonora. E anche Wright fa omaggio alla musica del passato, con la stessa nostalgia che Chazelle manifesta per il jazz e il cinema che lo hanno preceduto. È forse questa la cifra distintiva del musical contemporaneo: un effetto vintage intriso di malinconia e di rimpianto per l’euforia creativa degli esordi, tanto quelli della musica che ha radici lontane, quanto quelli di un cinema che ha accantonato il coraggio creativo per ripiegare sul franchising.
di Paola Casella