Assandira - Cineclub Arsenale APS

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ASSANDIRA

di Salvatore Mereu

Durata: 128'
Luogo, Anno: Italia, 2020
Cast: Gavino Ledda, Anna König, Marco Zucca


Sinossi

Zuppo d'acqua fin dentro alle ossa, Costantino si avvita sul pagliaio come un vecchio legno restituito alla terra dal mare in burrasca. La pioggia torrenziale ha appena finito di spegnere il fuoco che si è mangiato in una notte sola l'agriturismo in mezzo al bosco, Assandira. Ma la pioggia non ha spento il dolore, il rimorso bruciante per il figlio che è morto in mezzo alle fiamme e che non è riuscito a salvare. All'alba, i primi ad arrivare sono i carabinieri e il giovane magistrato: Costantino prova a raccontare loro cosa è successo in quell'ultima notte, a spiegare come tutto è cominciato...


Critica

Raccontare la Sardegna significa farsi depositari di una memoria ancestrale, materiale e immateriale, della lingua sarda, delle leggende e del folklore, della sua tradizione più carsica. Raccontare l’entroterra sardo significa restituire visivamente i suoi usi e costumi, risignificare quei luoghi, potenti e fieri come nuraghi, in cui si cela l’humus più autentico. Siamo canne, e la sorte è il vento. Chi oggi racconta la Sardegna deve fare i conti con Grazia Deledda. Un’inevitabilità a cui ha dovuto far fronte l’autore e antropologo Giulio Angioni e il regista Salvatore Mereu, nel consegnare nelle mani del pubblico Assandira, film presentato durante la 77a Mostra del Cinema di Venezia.  L’agriturismo Assandira viene dato alle fiamme. Il proprietario, Costantino, dopo una pioggia impetuosa e scrosciante tenta di raccontare l’accaduto ai carabinieri e a un giovane magistrato. La pioggia, il fango e la terra bruciata attorno nulla hanno potuto sul senso di pena e di vergogna di Costantino, superstite di una lunga deriva. Assandira si presenta come un dramma familiare e identitario ma è solo il pretesto inclito per affrontare qualcosa di molto più macrosistemico. Il primo è un certo tipo di turismo che emerge all’interno del racconto, che rifunzionalizza a suo uso e consumo le tradizioni locali, come un’intrusione, un ingorgo emblematico. Il secondo è di natura strutturale, è nello scheletro di un certo immaginario letterario e tradizionale, a cui appartiene l’idea del pastore sardo, qui in una veste postmoderna, l’idea di un territorio puro, selvaggio, e di una rappresentazione sarda che vive di stereotipi perpetuati e (parziale) condiscendenza formale. Assistere ad un’opera come Assandira ci porta inevitabilmente in una direzione di enorme frustrazione, soprattutto di sdegno nei confronti della rappresentatività sarda, rurale, insulare, massacrata dal turismo che iconizza il guadagno a scapito di qualsiasi dignità. Nei tanti dualismi che sottendono questa narrazione si compie il destino dei personaggi: nel bilinguismo e nella dialettica, nel ricordo e nella verità, aspettativa e autenticità, orgoglio e colpa, artificio e umanità. Come accadeva nei romanzi deleddiani, in cui aleggiano misteriose forze motrici che spingono i personaggi a compiere il male, e anche il bene, Assandira è abitato da personaggi erranti e da individui che vogliono permanere, come se il continente e l’isola si specchiassero per un momento ma solo in una teologia dell’immagine ancorata all’autoesotizzazione profana della rappresentazione sarda. Il locus amoenus si fa carne e spirito; la relazione tra gli uomini e l’aspra terra sarda diventa la pantomima di una visione e di una versione ludica della propria storia, in funzione di un sardismo ad usum delphini, stretto tra tradizione e modernità, passato e presente. I personaggi di Assandira sono granitici, stoici, quasi omeriani, verghiani, ma il punto di vista principale, quello attraverso cui noi guardiamo la storia, e la ascoltiamo grazie ad una continua e persistente voce fuori campo, è quello di Costantino, interpretato da Gavino Ledda. Costantino ci racconta una storia, una storia profetica, drammatica, incastrata tra acqua e fuoco, ed è grazie a lui che iniziamo a capire come sono andate le cose. Ma il dubbio che racconti qualcosa di non veritiero è tale che, mentre fa una ricostruzione dei fatti accaduti, sembra che la stia forgiando in quel momento, a suo modo, a suo piacimento, come nel modello plurale e relativista di Rashomon di Akira Kurosawa. Non c’è nessuno che dica la verità. Non abbiamo il coraggio di dire le cose neanche a noi stessi.

Lucia Tedesco, Lost in cinema