Critica
Rispetteremo l'accorato appello di Denis Villeneuve a non fare spoiler, per non guastare le sorprese allo spettatore. Ma poiché le rivelazioni si susseguono dal primo all'ultimo dei 163 minuti di Blade Runner 2049, raccontarne la trama non è facile. Basti sapere che, trent'anni dopo i fatti del prototipo diretto da Ridley Scott, un altro cacciatore di replicanti chiamato sinteticamente K (Ryan Gosling) ha preso il posto di Rick Deckard (Harrison Ford) nel dare la caccia alle cyber-creature. In apertura ne fa fuori subito una, il gigantesco Sapper Morton (Dave Bautista); poi la sua capa Madame (Robin Wright) gli assegna un nuovo compito, che innesca l'azione principale del film. Bisogna aggiungere che, nell'intervallo tra i due episodi, il megalomane Wallace (Jared Leto) ha preso in mano la Tyrell per produrre una nuova stirpe di replicanti: il che comporta l'esigenza di "terminare" gli ultimi esemplari della generazione precedente. Le cose prendono una piega dinamica allorché si scopre l'esistenza di una creatura ibrida, che potrebbe assumere un ruolo messianico: K è incaricato di cercarla mentre la micidiale Luv (Sylvia Hoeks), al servizio di Wallace, intende sopprimerla. Sempre dribblando gli spoiler, il centro drammatico del film si può riassumere in una domanda: i ricordi dei personaggi sono reali, oppure "impianti" nella testa di replicanti? Che è poi la stessa, a ben vedere, del film del 1982. Rispetto al quale Villeneuve e gli sceneggiatori Hampton Fancher (anche autore del soggetto) e Michael Green hanno compiuto un ottimo lavoro. I secondi non tradendo mai né lo spirito né la lettera del prototipo, cui fanno continuamente riferimento: e non per puro citazionismo, ma in modo sempre coerente e funzionale allo sviluppo del racconto.
Anzi, vorremmo dire che il sequel - almeno in un punto - rende al celebre romanzo di Philip Dick, classico della letteratura cyberpunk il cui titolo originale era "Do Androids Dream of Electric Sheep?", un servizio migliore del film precedente. Qui infatti ci sono diversi riferimenti agli animali (e compare anche un cane), che nel libro hanno un ruolo simbolico fondamentale ma che Scott aveva lasciato per strada. Tutto l'universo distopico che conoscevamo subisce un refresh, però nel senso di diventare ancora più cupo, alienato e degradato. Viene introdotta anche una variante ai personaggi femminili: Joi, graziosissimo ologramma innamorato (Ana De Armas) che offre a K un'inedita parentesi sentimentale. Quanto a Harrison Ford, come già in Star Wars: il ritorno della forza, compare solo a film avanzato; però serve a tirare tutte le fila dell'azione.
Se la sceneggiatura rispetta, rielaborandolo, l'universo del film che lo ha generato, non diversamente si comporta l'iperdotato Villeneuve con quello iconografico. I richiami alla megalopoli di Los Angeles - solcata da oggetti volanti, piena di insegne pubblicitarie, brulicante di un'umanità disperata - sono diretti; però alle sequenze notturne di Scott il regista canadese ne alterna altre in ocra e rosso, polverose e altrettanto post-apocalittiche.
Se Blade Runner 2049 è già in odore di cult-movie, lo si deve anche ad alcune sequenze d'azione magistrali: come la lotta tra K e Deckard nel locale in cui sta cantando un ologramma di Elvis o il confronto finale tra i buoni e la cattiva.
Roberto Nepoti, Repubblica.it