Critica
Tarantino ha in mano una storia di genere che è anche un pezzo di storia americana: il western appare dunque la scelta ideale, ma è ovviamente un western che non si colloca sotto il grande cielo della tradizione, che tutto ingloba e ridimensiona, bensì dentro un teatro (Candyland), in piena continuità stilistica e tematica con il precedente immediato, Bastardi senza Gloria. Ancora sorvegliati e sorveglianti, infatti, e ancora gioco delle parti, pericoloso ed estremo scambio delle stesse, strategia della vendetta e della messa in scena.
Qui, più di prima, il piacere del cinema, di farlo così come di ammirarlo, è in ogni piega del testo: nella recitazione espansiva dei protagonisti, con le punte di diamante di Samuel L. Jackson e Di Caprio; nella potenza del dialogo (perché Tarantino sceneggiatore non è mai da meno di Tarantino regista); nell'uso della musica e degli sguardi, che ha riesumato dal cinema italiano degli spaghetti western e portato a nuovo splendore; nel gioco (la sua comparsata "esplosiva"); nella citazione omaggiante o dissacrante che sia (di Griffith, ad esempio). Tutto concorre a nutrire uno spettacolo magistrale, che si appoggia su una narrazione forte, sempre più classica e ponderosa.
Nonostante il film non porti con sé nulla del meraviglioso Django di Corbucci, se non un messaggio d'amore, racchiuso nel titolo e nel refrain di Luis Bacalov, e una nota di orrore, che rima con razzismo, Django Unchained è un'opera impeccabile, interamente risolta, che procede come un lungo tapis roulant da un incipit cinico-grottesco, quasi alla fratelli Coen, verso un discorso più profondamente crudele e un riscatto totale, affidato al personaggio di Christoph Waltz, che mette a tacere qualsiasi sterile polemica. Peccato, se mai, per la brava Kerry Washington, impiegata a scopo esclusivamente funzionale, che non reca con sé alcuna memoria delle precedenti eroine tarantiniane, eppure la sua presenza basta a scaldare il film e ad evitargli la trappola del saggio freddo e cerebrale, oltre che a creare un fantasioso parallelo con la saga germanica di Sigfrido.
Il piacere del testo è dunque reale, verificabile, frutto di una soddisfazione innegabile delle aspettative che avevamo riposto in esso. Eppure, direbbe Barthes, ci sono testi di piacere e testi di godimento, che eccedono la regola, causano una scossa, uno stato di spaesamento che resta indicibile.
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