Critica
C'è, in questo Campanadas de medianoche, una misura, una scrupolo nel "voler chiarire" che è quasi magico (non dimentichiamo che la magia, di cui (Welles come sappiamo è maestro, anche se viene presentata come "fantasiosa" è una delle scienze più esatte). È una vera realtà premonitoria, così come premonitorie sono molte sue scene. Per esempio, quella della "rottura" finale tra Hal - che sta diventando Enrico V - e il vecchio compagno di baldoria, improvvisamente insicuro, addolorato e disilluso Falstaff, "prennunciata " quattro volte, come ha ricordato lo stesso Welles: « La morte del principe, la sequenza del re nel castello, la morte di Hotspur (che è quella della cavalleria) e la povertà e la malattia di Falstaff sono scandite nel corso del film e devono abbuiarlo ». Ma significativa e anticipatrice del finale è anche la sequenza della " commedia” inscenata da Falstaff e Hal, - quasi uno psicodramma, un' " autocoscienza " - nella taverna di Mastro Shallow. Come riporta McBride: « Improvvisiamo una commedia?, suggerisce Falstaff ammiccando. Condotto ad una piattaforma che ricorda un po' un palcoscenico, di fronte a un pubblico di cameriere (e che non sia, tra l'altro, un ammiccamento a Olivier e alla struttura del teatro come luogo shakespeariano che ha ricreato in certi suoi film? - n.d.a.) (...) Falstaff assume dapprima la parte di re Enrico IV, con una pentola per corona, ed imitando comicamente la voce di Gielgud, rimprovera Hal per il suo comportamento libertino - per scherzo, si capisce - e si lancia in una spudorata e inattesa difesa di se stesso. " Tienilo con te, e manda via gli altri! ", dice, di Falstaff, il " re " di Falstaff. Ma quando le parti s'invertono, Hal, nei panni di suo padre, rivela molto in fretta il suo disprezzo per Falstaff, che chiama "vecchio Satana con la barba bianca " in un tono decisamente non comico. Falstaff è spinto ad un brillante discorso di autodifesa, pieno di spirito e di fanfaronate, ma quando conclude: " Rinuncia al vecchio Jack, rinuncerai al mondo intero ", Hal, freddamente, annuisce: "Lo farò " ». E, proprio in questa sequenza, Welles forse per la prima volta nella sua lunga carriera, dà un'interpretazione emotiva, una grande interpretazione emotiva, a dispetto di coloro che hanno sempre voluto incasellarlo tra gli attori "distaccati ". A dispetto, anche, dei "cultori " shakespeariani - come se poi \Velles non lo fosse - il dialogo non contiene alcuna aggiunta. « Non c'è una sola parola mia nel film: il dialogo - ha ribadito Welles - è tutto di Shakespeare. Mi sono limitato a comporre un mosaico di battute tratte da diverse opere: una sceneggiatura cinematografica scritta da William Shakespeare, dunque. Ma, attenzione: non ho voluto fare un film sulla vita e sulla morte di Falstaff. Io racconto le vicende di un " triangolo ": Enrico IV, il re usurpatore; suo figlio, il futuro Enrico V, che, salito al trono, abbandona i suoi compagni di sregolatezza e Falstaff, il buffone, che incarna la Merry England». Per gli amanti dei "collegamenti " si può segnalare come questo Campanadas de medianoche entri in diretto rapporto, per esempio, con gli Amberson, dato che ambedue sono canti, elegie funebri per epoche che finiscono - nel primo caso la società rentière americana; qui, in Falstaff, la morte della vecchia, gaudente Inghilterra - e che, in questa morte di un determinato periodo di tempo, trascinano con loro i personaggi più "positivi " o " ingenui " ma superati dal corso della storia: là - magari - Isabel o perfino il vecchio Amberson, qui senza dubbio John Falstaff.
C. Valentinetti, Orson Welles, 1980