Critica
Ghostbusters: Legacy è un passaggio di testimone da padre a figlio, in sede di regia, e un viaggio del secondo nel tempo del primo, attraverso un lavoro sulle fonti - le VHS, le clip incorporate da YouTube, col riposizionamento semantico che comporta - che entrano organicamente a far parte della materia del film, in uno scambio tra analogico e digitale che è presente in tutto il testo e nel sottotesto tematico, e si traduce visivamente in un'estetica steampunk, che combina anacronistico e contemporaneo. Un ritorno ben giocato, dunque, perché presentato come un'esperienza nella quale scoperta e riscoperta convivono felicemente, per pubblici diversi, grazie anche alle giuste intuizioni di scrittura, che guardano a classici più recenti come "Spiderwick" (il trasferimento nella magione diroccata dovuto ai problemi di famiglia e in particolare alla latitanza della figura paterna) o anche "Jumanji", citato nella scena del Walmart, per il ruolo degli oggetti che consentono la transizione e per il modo in cui gli elementi originari, pur rimanendo gli stessi (tornano infatti Gozer, il Mastro di Chiavi, il Guardia di Porta, ma anche Ivo Shandor e l'omino di Marshmallow), dimostrano di poter sopportare felicemente sempre nuove incarnazioni. Ogni generazione, insomma, può avere i suoi Ghostbusters, ci dice il film di Jason Reitman, perché il mondo ne avrà sempre bisogno. Ieri erano Peter, Ray, Egon e Winston, oggi sono la giovanissima Phoebe, che adora la scienza, suo fratello Finn "Trevor" Wolfhard, che di soprannaturale ha già sentito parlare altrove, alle prese con il Sottosopra, e la bella Lucky e il simpatico Podcast, i cui file audio serviranno forse un giorno come fonti storiche orali in una nuova avventura.
Marianna Cappi, mymovies.it