Critica
Senza mezzi propri né una rete di conoscenze, abbandonando una vita comoda e armato solo della conoscenza dei testi sacri sanscriti, era arrivato in cargo dall’India a New York nel 1965, dove superate alcune difficoltà aveva aperto un ashram nel Lower East Side.
Tutto accadeva nel momento di massima espansione del Flower Power, la controcultura, gli hippy e il rock, a cui il movimento parteciperà in modo inaspettato. Alla cultura dell’LSD e della psichedelia però Prabhupada contrappose l’autocontrollo, il rispetto della natura, la considerazione del corpo come un abitacolo temporaneo rispetto alla persistenza dell’anima.
Durante l’arco piuttosto breve di 12 anni il maestro riuscì ad aprire oltre cento templi in tutto il mondo, a viaggiare moltissimo, fare proseliti, e cosa ancora più importante, tradurre in 25 lingue i testi sulla coscienza di Krishna. Ma lo strumento centrale del suo messaggio, quello che maggiormente si imprime nella memoria dei suoi seguaci è il mantra: la pratica del canto devozionale che costituirà la chiave di accesso della diffusione dei suoi insegnamenti spirituali nel mondo occidentale. La preghiera che si farà largo anche nella cultura pop come il tratto caratterizzante della sua predicazione. Non solo New York, ma anche Londra e perfino Mosca sono attratte dai gruppi di giovani con sari che ripetono con tamburi e cembali la loro lode alla divinità, la litania che apre la strada alla felicità universale.
Smaccatamente celebrativo dell’esperienza di Prabhupada, il documentario oscilla costantemente tra due poli: da una parte c’è un materiale di partenza pregevole, cioè il girato di tv, collaboratori e filmmaker dell’epoca (tra cui anche Jonas Mekas) che contiene, oltre a viaggi e dichiarazioni di Prabhupada, alcuni apparizioni storiche: oltre alle riprese delle prime riunioni spontanee di quei gruppi dalle teste rasate, in sari e sandali, ad ammaliare e avvicinare schiere di passanti metropolitani, l’apparizione tv di Allen Ginsberg, che suona il mantra ed elogia il basso profilo del maestro, all’intuizione di George Harrison, già folgorato dal maestro, di fare incidere al gruppo di discepoli negli studi di Abbey Road del Radha Krishna Temple Album che avrà un successo oltre ogni aspettativa (e influenzerà la produzione successiva di Harrison). Dall’altra le interviste recenti ai reali discepoli di Prabhupada, protagonisti di quel momento, molti di cui poi sono diventati studiosi, docenti legati alle scuole e università nate sulla scia di ISKCON.
Un coro unanime di voci che testimonia anche l’afflato utopista e tremendamente concreto di quel momento, compresa la reazione scomposta di una società conformista, che portò a correre ai ripari affrontando il fenomeno in termini di minaccia di brainwashing, lavaggio del cervello.
A fare da connettivo tra i due piani temporali, una serie stereotipata di inserti posticci e di sequenze di re-enactement del passato (di ambientazione per lo più indiana) e una colonna sonora originale monocorde: entrambe, insieme a un montaggio mai più che scolastico, non apportano vivacità ulteriore al ritratto di un messaggero della vibrazione spirituale.
Raffaella Giancristofaro,Mymovies.it