Io sono l'amore - Cineclub Arsenale APS

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IO SONO L'AMORE

di Luca Guadagnino

Durata: 120'
Luogo, Anno: Italia, 2009
Cast: Tilda Swinton, Flavio Parenti, Alba Rohrwacher, Edoardo Gabbriellini, Pippo Delbono


Sinossi

Emma e Tancredi Recchi sono una coppia dell'alta borghesia lombarda. Sposati da tanti anni senza essersi mai amati, trascorrono la loro monotona esistenza in una splendida villa nel cuore di Milano insieme ai loro tre figli, Elisabetta, Edoardo e Gianluca. Mentre Gianluca è l'orgoglio di suo padre, destinato a prenderne un giorno il posto, Edoardo, il prediletto di Emma, delude ogni aspettativa di Tancredi con il suo idealismo. Quando Edoardo si getta a capofitto nell'ennesima avventura rilevando un ristorante insieme al suo amico Antonio, un giovane e talentuoso chef di umili origini, come al solito Emma si schiera al suo fianco. L'arrivo di Antonio, la sua creatività e il suo sorriso daranno una brusca sterzata alla vita della famiglia Recchi, risvegliando in Emma la potenza dell'amore...


Critica

Quasi del tutto ignorato dal pubblico italiano, accolto in modo tiepido quando non vagamente irritato dalla critica nazionale (le pochissime eccezioni sono però all’insegna dell’entusiasmo), applaudito invece da quella anglosassone, Io sono l’amore è un film magnificamente spudorato nella sua maniera mélo, ammirevole nella sua presunzione e nel suo puntare alto (rara avis nel panorama cinematografico italiano generalmente ripiegato su un minimalismo televisivo dal fiato cortissimo, di storie e di sguardi, incapace di osare), sbalorditivo per come riesce a modellare per pura forza estetica la propria cinefilia (rimanendo in ambito italiano, l’ovvio Visconti ma ancor più Antonioni e perfino Bertolucci) in un intreccio magnetico e stilizzato di superfici, architetture, corpi, rituali, che raccontano un mondo semplicemente distillandone l’essenza, con un procedimento da alta e preziosa profumeria visiva. Essenza che accortamente ricopre gli effluvi della decomposizione, che è storica e morale, di una famiglia della grande borghesia industriale milanese, aristocrazia dell’imprenditorialità novecentesca traghettata nelle dinamiche economiche del nuovo secolo senza eccessivi traumi, nonostante gli scrupoli dell’erede Edoardo Jr. (“Diventeremo sempre più ricchi” afferma con disincantata perspicacia Betta, interpretata da una misurata ed efficace Alba Rohrwacher, all’ingenuo fratello che le annuncia sconsolato la vendita della società). Guadagnino corre arditamente (e sfrontatamente) tra linee narrative sull’orlo del precipizio, facendo slalom tra “I Buddenbrook” e gli Agnelli, l’elitario libro d’arte e il rotocalco di gossip e lifestyle sul jet set meneghino, D. H. Lawrence e Sveva Casati Modignani, la saga viscontiana e una “Dynasty” lombarda (quasi ad epitome di questo percorso l'inserimento-citazione della celebre sequenza callasiana di Philadelphia, dalla cui aria è tratto il titolo del film, avviene nella cornice tv di Rete4); viviseziona il corpo incandescente del melodramma con la lama gelidamente affilata dell’estetismo (avvicinandosi in questo all’altra sorpresa dell’anno, l’exploit registico di Tom Ford); costruisce una sinfonia di luoghi e oggetti sensuosa e antipsicologica che scarnifica i personaggi, teatralizzandone i dialoghi, e anima i luoghi (straordinario l’uso narrativo degli ambienti modernisti della Villa Necchi Campiglio, spazi metafisici in cui uomini e donne hanno la stessa valenza dell’arredo); abbaglia e seduce come un Douglas Sirk rivisto da De Palma. L’apparato visivo è affascinante: montaggio frantumato e musicale, dettagli urbani sghembi, movimenti di macchina fluidi e implacabili (uno fra i tanti, quello improvviso che accompagna Emma dai piani nobili della villa alle cucine lungo una folle discesa per le scale per rubare un bacio all’amante), illuminazione antinaturalistica che avvolge le vicende in un alone semionirico (fotografia di Yorick Le Saux che gioca sapientemente sul registro patinato), uso scenografico delle didascalie e dei titoli di testa in stile rétro, Milano trasformata fin dall’innevato incipit in un luogo di solenne e austera visionarietà, la campagna sanremese eroticamente illanguidita dal sole estivo. Nel mondo di Io sono l’amore ciò che è “vita”, con tutte le incongruenze, imperfezioni ed eccentricità che le competono, viene però declassato a favore dell’imperturbabilità dell’esposizione lussuosa, della scrupolosa “messa in vetrina” (nel finale vengono significativamente ignorati i richiami allarmati di Eva, la compagna del defunto, alla propria gravidanza messa in pericolo da un improvviso malessere perché tutta l’attenzione è rivolta allo scandalo che incrinerebbe l’unità della foto di famiglia): è un mondo di meticolosi cerimoniali di autoconservazione (i primi venti minuti ruotano tutti attorno ai festeggiamenti per il compleanno del patriarca dei Recchi), mausolei monumentali e preziose nature morte dove vige l’immobilismo psicologico, i genitori imbalsamano i propri figli e le vecchie generazioni tengono in ostaggio le successive, sacrificando gli elementi più deboli, richiamandosi alla “sacralità” di una tradizione che privilegia la forma alla sostanza, l’eleganza della rispettabilità alla sconvenienza della felicità. In un’opera di tale ricercatezza figurativa, è proprio la bellezza allora ad essere via via svestita del bon ton istituzionale, dell’impeccabilità museale per diventare fremente, irregolare, lacerata, avanguardistica. È il risveglio dell’atrofizzato senso del gusto ad opera dell’amico del figlio, cuoco di mestiere, corpo estraneo inoculato nell’esclusivo milieu dei Recchi, che conduce la protagonista, una Tilda Swinton superba (tra le altre cose Io sono l’amore è anche un atto di devozione totale nei confronti dell’attrice inglese, come e forse più di Orlando di Sally Potter), a un deragliamento di tutti i sensi che assume le forme di un’epifania e la spinge al recupero dell’autentico sé, del proprio nome dimenticato. La Emma di Tilda Swinton “s’imbruttisce”, abbandona la condizione di raffinata ed esotica “signora del ritratto”, taglia drasticamente i capelli, suda, si denuda, indossa una tuta sgraziata (stesso percorso ma meno platealmente sovversivo e più avvedutamente sfumato da una inquieta diplomazia è quello compiuto dalla figlia Betta). Abbandonando la sfolgorante silhouette femminile di un manichino vestito e spogliato da mani altrui la donna si proietta in un’androginia deflagrante, fuori norma, rivoluzionaria (togliendole la giacca con la quale poco prima con gesto galante le aveva coperto le spalle inzuppate di pioggia, il marito Tancredi dice sprezzante “Tu non esisti” alla moglie che ha appena confessato il suo amore per Antonio all’interno del Famedio nel Cimitero Monumentale di Milano: impaurito dalla sua forza, cerca disperatamente di ricondurla allo status di oggetto inanimato, di trofeo inerte). Ovvio allora che lo statuario nitore delle immagini venga squassato dalla musiche operistiche e squillanti, quasi “urlate”, di John Adams (bellissimo il parossismo sinfonico della sequenza conclusiva, con l’acuto dell’abbraccio solidale e rivelatore tra la Swinton e la domestica interpretata dall’ottima Maria Paiato). L’aver cucito tutte le scelte stilistiche proprio con l’ago delle sontuose partiture orchestrali del compositore americano costituisce una delle più interessanti intuizioni formali di Guadagnino: strepitoso metronomo emotivo, la colonna sonora detta ritmi e deforma volumi. Nel finale, all’immagine dell’ingresso deserto della magione dei Recchi segue l’elenco del cast. Subito dopo s’intravedono in una caverna due figure accoccolate, quelle di Emma e Antonio: l’utopia è confinata fuori dalla Storia e dal racconto, in un antro primitivo rischiarato da una dolce luce ambrata, culla di un auspicabile ma probabilmente impossibile nuovo mondo.

Michele Favara, spietati.it