Critica
Basato sul romanzo La casa del dottor Edwardes di Francis Beeding e adattato per l’occasione filmica da Angus MacPhail e Ben Hecht, la creazione della pellicola e la sua realizzazione finale, ebbero un processo non poco travagliato. La seconda collaborazione tra Hitchcock e Selznick (Selznick ha prodotto anche Rebecca – La Prima Moglie, Notorius – L’Amante Perduta e Il Caso Paradine) vide il produttore occuparsi del montaggio, eseguendo dei tagli drastici. Selznick, inoltre, portò con sé sul set la sua analista personale (che lesse anche la sceneggiatura), per avere consigli tecnici del settore e realizzare quello che sarebbe un thriller freudiano. Le caratteristiche dei film da lui prodotti? Un grosso budget, grandi interpreti protagonisti e una storia d’amore costellata da momenti oscuri. La pellicola, in fin dei conti, oltre ad essere un thriller è anche molto ironica, grazie alle inquadrature realizzate con il fish eye (obiettivo che abbraccia un campo visivo di 180°), alle scenografie oniriche curate da Salvador Dalì e all’interpretazione dolce della Bergman, una psicoterapeuta repressa che sembra ridare un peso alla propria vita quando s’innamora di un paziente, colpito da amnesia, che potrebbe essere anche un potenziale assassino. Con un milione e mezzo di budget e tre mesi di riprese, quello che ne risultò fu un film che ebbe un grande consenso positivo di pubblico e critica e che permise ad Hitchcock di essere più indipendente nei film successivi, da lui realizzati sotto la produzione di Selznick. Sebbene la sceneggiatura non sia del tutto brillante, la caratteristica del film sta tutta nel raccontare la vicenda attraverso una serie di primi piani, generalmente della Bergman, che fanno di lei una donna-angelo, che assume istintivamente un carattere materno e protettivo verso l’uomo di cui si è appena innamorata e di cui non sa neppure la sua vera identità, diventando poi un’amante salvatrice. Con Io Ti Salverò, Hitchcock riesce ad inserire, ancora una volta, i temi della colpa, della crisi e sdoppiamento d’identità e della confessione, a lui cari. In questo film, il simbolo delle righe su sfondo bianco, che danno luogo alla fobia di Anthony, è la chiave di volta di tutta la pellicola e, nonostante il collegamento righe-fobia si ha solo alla fine, esse sono presenti in tutto il film; ricordano simbolicamente un problema mentale che, tuttavia, rimane sotto i nostri occhi e allo stesso tempo è implicito, fino alla fine.
cinematographe.it, Mara Siviero