Critica
Il mostro della laguna nera si trasforma nel principe azzurro, e la favola di Cenerentola in chiave dark si dimostra un atto d’amore verso il cinema. The Shape of Water è un film visionario, romantico, che rimane impresso negli occhi e nel cuore. Difficilmente si potrà dimenticare il ballo in bianco e nero tra “la bella e la bestia”, sulle note dell’intramontabile You’ll Never Know.
Guillermo del Toro conferma il suo stile onirico, in una storia dove il sole non sorge quasi mai. L’oscurità regna sovrana in ogni sequenza e rispecchia il dolore intimo dei personaggi, che soffrono per una vita perduta. La creatura è stata strappata da un fiume in Amazzonia per diventare una cavia da laboratorio, mentre Elisa, l’eroina della storia, è muta per un trauma passato e vive ai margini della società, perché si sente diversa. Lei lavora come donna delle pulizie in un laboratorio segreto, dove gli esperimenti sono all’ordine del giorno.
Siamo nel 1962, quando i potenti si sfidavano a colpi di scoperte tecnologiche e cominciavano ad alzare lo sguardo verso le stelle. I russi e gli americani si contendevano il mondo e la paura del nucleare evitava la guerra. I servizi segreti made in Usa si scontrano col KGB, e tutti pensano a quale animale potranno mandare per primo nello spazio. Elisa scopre la passione per quell’essere che il Governo vorrebbe usare come una cavia da laboratorio, e il suo mondo si colora all’improvviso.
L’anima nostalgica di The Shape of Water prende vita con le Cadillac che sfrecciano per le strade, con il mito del sogno americano che muore sotto i colpi dell’incomprensione. Del Toro attacca la politica intransigente di Trump verso gli immigrati e presenta la caricatura del self made man con il villain Michael Shannon. Lui ha una famiglia perfetta e una moglie bellissima, ma l’ambizione lo divora. Il progresso e la smodata ricerca della conoscenza distruggono la bellezza della quotidianità.
Del Toro si rivela ancora una volta un grande narratore, dopo il convincente e sempre sanguinoso Crimson Peak. Anche qui non mancano le inclinazioni gore che contraddistinguono la sua regia, e le scene “spinte” attirano gli adulti e lasciano a casa i bambini. Non si tratta di un ritorno all’horror, ma di un richiamo a Il labirinto del fauno, a quella dimensione fanciullesca che aveva rapito pubblico e critica.
Al regista messicano non interessa la verosimiglianza, e lo stesso cantastorie di The Shape of Water, un eccentrico Richard Jenkins, lo conferma durante i primi minuti. “Come potrei raccontarvi questa storia? Come potreste credermi?”, recita l’attore dopo i titoli di testa. La finzione è la vera realtà, e i mostri camminano tutti i giorni sui marciapiedi. Sembrano persone normali e l’anima avvelenata la nascondono sotto un bel vestito.
The Shape of Water va oltre le apparenze, scava nel profondo, ed esalta con la sua cinefilia. Non a caso Elisa vive sopra a una sala cinematografica, per ricordarci che dobbiamo ancora sognare e credere nell’impossibile.
Gian Luca Pisacane, cinematografo.it