Critica
“Uno dei miei primi ricordi è Maciste all’inferno”, questo il racconto di Fellini raccolto dall’amico Dario Zanelli. “Mi pare persino che sia il mio primo ricordo in assoluto. Ero molto piccolo, ero in braccio a mio padre, che stava in piedi (il cinema era affollato), quindi dovevo avere un peso sopportabile, non potevo avere più di sei, sette anni. Mi ricordo questo saloncino buio, fumoso, con questo odore pungente e, sullo schermo giallastro, un omaccione con una pelle di capra che gli cingeva i fianchi, molto potente di spalle – molto più tardi ho saputo che si chiamava Bartolomeo Pagano – con gli occhi bistrati, le fiamme che lo lambivano intorno, perché si trovava all’inferno, e davanti a lui delle donnone, anche loro bistratissime, con ciglia a ventaglio, che lo guardavano con occhi fiammeggianti. Quell’immagine m’è rimasta impressa nella memoria. Tante volte, scherzando, dico che tento sempre di rifare quel film, che tutti i film che faccio sono la ripetizione di Maciste all’inferno”.
“Il film risulta un’autentica fantasiosa diavoleria – ha scritto Vittorio Martinelli –, un impasto di grottesco e di sentimentale, di comico e di mirabolante, ove si riescono a fondere esperienze lontane come quelle di Méliès, e coeve come quelle di Metropolis, addirittura prefigurando l’esplosione dei fumetti dei primi anni Trenta, in un godibilissimo pastiche di espressionismo e iconografia popolare, sensualità mediterranea e gotico luciferino. In questa vicenda, la lotta del Male contro il Bene (con ovvia vittoria finale di quest’ultimo) si complica di elementi soprannaturali; la rievocazione del mondo infernale è fatta secondo la classica tradizione dantesca vista nelle tavole di Gustav Doré”.
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