Critica
Il rapporto tra informazione e potere è antico (quasi) come il mondo a cominciare probabilmente dalla narrazione della genesi della Terra, quindi non si scopre quasi niente a muovere le pedine che sorreggono le strutture dell’informazione strettamente legate a quelle che sorreggono il potere politico o lo determinano. Negli anni settanta, si parlava di manipolazione dell’informazione e spettava alla cosiddetta controinformazione reagire con una capillare rete di diffusione di informazioni differenti, garanzia di una certa verità, che era tanto capillare da trovarsi spesso in una strada senza uscita. Nel senso che non riusciva a raggiungere nessuno o al più quelli già sensibili ai temi.
Sbatti il mostro in prima pagina, interviene proprio su questo nodo dell’informazione legato ai centri di potere occulti dominati da personaggi tanto misteriosi, quanto potenzialmente pericolosi.
Il film di Bellocchio, per quanto schematico nel suo impianto generale, continua a conservare un’efficacia dimostrativa anche a quasi cinquant’anni dalla sua uscita. Discostandosi da un cinema prettamente cronachistico, sulla scia dei c.d. poliziotteschi, ne conserva un impianto assai vicino, soprattutto in quegli sguardi sulla città che resta materia di un interessante approfondimento. Bellocchio non ha mai, neppure in questo film che rasenta il genere, avuto l’intenzione di realizzare un cinema di consumo immediato. Questo film, nonostante gli anni, costituisce un’utile riflessione sull’utilizzo della stampa in rapporto ad ogni reale o presunta verità. All’epoca, quando l’informazione era detenuta in poche e controllate mani, era molto più semplice tacere la verità e fornire una compiacente versione dei fatti o peggio determinarne il corso. Oggi, con l’avvento della rete e di un giornalismo sicuramente meno compiacente, tutto è mutato, l’emergere della verità è più frequente, ma resta comunque il problema. La rete e i you reporter non ci mettono del tutto al riparo da una mistificazione del vero e da una sua artificiosa costruzione.
Ecco quindi l’attualità del film di Bellocchio al quale non nuoce affatto la contestualizzazione (che siamo costretti a chiamare) d’epoca. Un film di cui va apprezzata una vitalità sotterranea, che trova la sua origine nella composta e determinata cattiveria di Bizanti al quale Gian Maria Volontè attribuisce la stessa arroganza del Capo della Squadra Omicidi In Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Il percorso artistico dell’attore milanese è sempre sembrato un contrappasso rispetto a quella che fu la sua vita. Una sintesi è qui rappresentata dall’acido monologo, consumato in salotto davanti alla TV, in cui il glaciale Bizanti sbatte in faccia alla moglie (Carla Tatò) il disprezzo che nutre per lei, così imperdonabilmente ingenua nel credere a tutto quello che egli deve sostenere nel suo lavoro, senza riuscire a scorgere la verità che sta dietro il falso che deve essere raccontato. Un momento che coglie un rigurgito di rabbiosa verità che assomiglia a quella dell’assassino che fa di tutto per essere scoperto. Nel bene e nel male il cinema di Marco Bellocchio cominciava ad occuparsi della storia con un taglio inconsueto, così come ancora oggi continua a fare.
Tonino De Pace, Sentieriselvaggi.it