Critica
Da una parte il realismo dello sfruttamento dei braccianti agricoli. Dall’altra la storia struggente di un padre e di un figlio, protagonisti di un’epopea tragica e personale. È la cronaca che si intreccia alla fiction nel film Spaccapietre, unico film italiano presentato oggi in concorso alle Giornate degli Autori, nell’ambito della 77esima Mostra del Cinema di Venezia dai gemelli Massimiliano e Gianluca De Serio.
I registi torinesi tornano così con il loro secondo lungometraggio di finzione, dopo svariati documentari e l’apprezzato Sette opere di misericordia (2011).
Il film è un pugno allo stomaco e non risparmia quasi niente alla vista dello spettatore. L’avidità, la perversione e gli insopportabili paradossi che governano le azioni del padrone (Vito Signorile) e dei caporali prendono forma, in un crescendo di spietatezza. Una disumanità che stride profondamente con la tenerezza del rapporto padre-figlio, costruito e interpretato in modo commovente.
Attraverso gli occhi innocenti del piccolo protagonista e lo sguardo “a metà” del padre, sprofondiamo negli abissi della criminalità e dello sfruttamento che governano la filiera agroalimentare. Un viaggio scandito dalla morte di vittime sacrificali e dalla disumanizzazione degli innocenti. Attraverso le immagini, più che le parole, i registi scavano nell’anima dei personaggi, costringendoci a fare lo stesso e a interrogarci, fino alla scena finale, sul confine tra giusto e sbagliato. Uno scavare che è richiamato nella passione per l’archeologia di Antò e che è scolpito in un’immagine emblematica e difficile da dimenticare, in cui un cinghiale viene svuotato delle sue viscere.
La scelta dell’ambientazione di Spaccapietre è venuta da una combinazione di fattori. “La vicenda al centro del film prende spunto da un fatto di cronaca di qualche estate fa, la morte sul lavoro della bracciante pugliese Paola Clemente, e dall’assurda coincidenza con la morte di nostra nonna paterna, deceduta lavorando negli stessi campi nel 1958. Il film è innanzitutto il tentativo di riappropriarci di un’anima, quella di nostra nonna mai conosciuta, attraverso la storia e il corpo di un’altra donna”.
Anche il lavoro di spaccapietre è legato alla storia di famiglia: “Come il padre di Giuseppe nel film, anche nostro nonno paterno, prima di partire per Torino negli anni Sessanta, faceva lo spaccapietre”.
Il passato, dunque, s’intreccia con il presente e la storia personale si fonde con una questione sociale. Proprio la morte di Paola Clemente, morta a 49 anni il 13 luglio 2015, ad Andria, mentre raccoglieva l’uva sotto al sole, per due euro l’ora. Una vicenda che ha permesso di portare all’attenzione della cronaca una piaga che da anni affliggeva il settore agroalimentare e di approdare nel novembre 2016 alla legge sul caporalato. Una norma resasi necessaria per contrastare il fenomeno del lavoro nero e dello sfruttamento in agricoltura, che tutt’oggi non è bastata a estirpare un crimine tanto odioso quanto anacronistico.
Alice Zampa, lifegate.it